Alfa Mist
Structuralism
Fact checking: a farmi scoprire il talentuoso pianista e producer Alfa Mist non è stata la peraltro assidua frequentazione dei meandri di quel paradiso in terra che è la scena jazz londinese contemporanea, bensì una curiosa combinazione di casualità e algoritmi che, a partire dalla visione delleccezionale live session ad Abbey Road di Love Is The Message (singolo espanso del redivivo Yussef Dayes stampato, lo scorso dicembre, su vinile azzurro in 1000 copie limitate), mi hanno condotto dritto nelle fauci di Structuralism, secondo lavoro lungo del venticinquenne di Newham, East London, a due anni di distanza dallesordio (e piccolo caso discografico) Antiphon. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei: basta leggere la folta lista di strumentisti che intervengono sulle composizioni dellalbum per capire che Mist, seppur ancora giovane e per molti versi acerbo, fa già parte del giro che conta. Ancor più importante, tanta e tale fiducia almeno per una volta sembra ben riposta.
Disco compatto e solido nella scrittura, sinuoso e levigato nei suoni (a tratti, va detto, al limite dello stucchevole), Structuralism in un involontario omaggio a Saussure si sviluppa effettivamente lungo due rami: quello delle jam, dove una semplice idea melodica germina in un proliferare consequenziale di invenzioni soliste, e quello delle vere e proprie canzoni, con cui a tratti si misurano ospiti vocali esterni. Nel primo gruppo funzionano meglio gli episodi più concisi e ibridati, come il soffuso cool-hop di Retainer, in cui si spalanca a sorpresa una sonata pianistica agghindata da un ventaglio darchi (quasi dei GoGo Penguin ammaliati dal chitarrismo fusion) o la quadratura black di Glad I Lived, sporcata dalla tromba con sordina di Johnny Woodham e anestetizzata in coda dai synth analogici del bandleader. Altrove la piacevolezza dellesecuzione tecnica, invece, scivola nel manierismo (i dieci minuti inaugurali di .44 sono già un buon cliché di genere) o si ferma un attimo prima di spiccare il volo (non granché incisivi i virtuosismi chitarristici di Jamie Leeming nella seconda metà di una Naiyti peraltro ben costruita a livello di atmosfera). Tutti piuttosto efficaci, daltro canto, gli autografi del secondo gruppo: Kaya Thomas-Dyke gioca a fare il doppelgänger di Kadhja Bonet nel malinconico trip hop di Falling (anche se lepilogo accenna una svolta drammatica che avrebbe meritato ben altro minutaggio), mentre piuttosto intenso è il crescendo terzinato di Mulago (splendido il solo di Woodham) e la pregevole inflessione soul di Jordan Rakei, nella conclusiva Door, aiuta a costruire una elegante hit jazz-hop dalle poliformi tessiture strumentali.
Nulla di imprescindibile, se non lennesima testimonianza della salute e della vitalità della Londra multietnica, sospesa a cavalcioni tra generi e identità e desiderosa di aprirsi al mondo. Piacerà, fortunatamente, a molti.
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