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R Recensione

5/10

Weezer

Pacific Daydream

Noi, a dire la verità, scherzavamo, ma con le rockstar di mezza età è piuttosto pericoloso buttarla sul ridere. Così, Rivers Cuomo ha deciso: ci sarà davvero un “Black Album” degli Weezer, un disco degno del suo colore, scuro e pesante (ma non avevi già scritto “Maladroit”, Rivers?). Nel frattempo, quasi fosse uno stacco pubblicitario che preannuncia l’episodio pilota di una nuova serie tv di successo, tocca all’undicesimo “Pacific Daydream” titillare ad ogni costo l’attenzione dei potenziali interessati. Poco importa se l’eccessiva prolificità spezza un’attesa che certo non si può definire messianica (il “White Album” è appena dell’anno scorso) e diluisce il messaggio finale. Di mestiere, d’altro canto, s’impara a vivere: “It’s a hip hop world, and we’re the furniture”, canta il quarantasettenne di New York in “Beach Boys”, in un’autoironica riedizione formato Pitchfork della generazionale (quella sì) “The World Has Turned And Left Me Here”.

La vera domanda è: qual è stato l’ultimo disco degli Weezer che reggeva senza troppi patemi dall’inizio alla fine? Le correnti di pensiero, a questo proposito, si dividono: c’è chi si ferma al “Green Album” (2001), chi – come il sottoscritto – concede il beneplacito a “Make Believe” (2005), chi addirittura premia il più recente “Everything Will Be Alright In The End” (2014). Una cosa è certa: la sciagurata doppietta “Raditude” – “Hurley” (2009-2010) ha certificato inequivocabilmente la drammatica china discendente di un gruppo che – fatti salvi alcuni lampi disseminati nei lavori successivi – sembrava aver smarrito sé stesso e la propria ragione di essere. Svincolato dalla montante estetica power rock del “White Album”, “Pacific Daydream” si concede anima e corpo alle vibrazioni pop più smaccatamente chart oriented, con tanto di inconsistente tamarrata EDM scritta a dodici mani (!) e prodotta dal guru J. R. Rotem (“Feels Like Summer” è degna dei Maroon 5). È una mosca bianca in una scaletta che, tuttavia, non brilla per spirito d’iniziativa: si veleggia sonnecchiosi tra anthem three-chords-only che mettono assieme le muffite ossessioni femminili con il ticchio giovanilistico delle chitarre (“Mexican Fender” è tronfia e banale), torch songs da nosocomio (“QB Blitz”), enfatiche dichiarazioni AOR tutto caramello e buoni sentimenti (“Sweet Mary”) e fugaci armonie californiane intrappolate da semplici beat formato wine bar (“Happy Hour”).

Pacific Daydream”, in sé, è piuttosto breve ed asciutto (si superano di poco i trentaquattro minuti), ma ci si scoccia ben prima. Non che ci sia realmente qualcosa da recriminare: gli Weezer, bontà loro, continuano a fare gli Weezer. È la nostra soglia di tolleranza, probabilmente, ad essersi abbassata: tanto che il ritornello melodrammatico di “Weekend Woman” finisce dopo un ascolto e mezzo nell’archivio del camp retromane e il wannabe country di “Get Right” dura ancora meno. A conti fatti, si salva solo la doppietta finale, i Cars electro-indie di “La Mancha Screwjob” (sì, a quanto pare è proprio questo Screwjob) e il leccato college rock di “Any Friend Of Diane’s”: comunque molto poco. Lo sapete, d’altro canto, qual è il destino del 90% degli instant records non scritti per necessità, sì?

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