Glorytellers
Atone
Vedete bene come vanno diversamente, le cose, da un lato allaltro del mondo. Noi abbiamo i seminatori dodio, diretti eredi dei biblici piantatori di gramigna, figure di certo molto ambite nellattuale panorama politico. In America, al massimo, ci sono i seminatori di storie. E di gloria. Che non farebbero molta strada in una preconcetta rincorsa alla Casa Bianca, ma che nonostante tutto riescono ad esprimersi (quasi) sempre al loro meglio. Ecco il caso di Geoff Farina, il Beethoven del jazz rock novantiano, non fosse altro per quei fastidiosi problemi dudito che lo costrinsero a sciogliere i suoi Karate prima, a rifondare dal nulla una nuova araba phoenix poi. Glorytellers. Duo ora trio dalle incredibili capacità melodiche, alla riscoperta dei vecchi vinili country e blues con unanima, sotto sotto, profondamente britannica: si spiegano così sia la dimensione acustica, che la profondità dei bozzetti contenuti nello straordinario esordio dellanno scorso, patinati di una nostalgia uggiosa e di una sottile amarezza al riparo da ogni agente atmosferico, pioggia forse esclusa.
Atone è, se possibile, il suo fratellastro zampettante. La matrice genitoriale rimane intatta ed immutabile: scheletri minimali, nudi ed essenziali, appena animati da vibrati chitarristici e spazzolate di batteria al limite del superfluo. Cambia, però, a tratti perfino sensibilmente, il movimento delle ballate. Il tono da tenersi su Glorytellers era sempre e comunque legato allintrospezione: in questo senso, il suo successore amplia le vedute e recupera quellincarcerata solarità che troppo a lungo era rimasta in apnea. Bastino, a dimostrarlo, gli straordinari incastri di The Lost Half Mile, tappezzata di arpeggi alla maniera dei Kings Of Convenience con blocco centrale ripartito in levare. Si sposta, a seguire, anche il nume tutelare: più e più volte appare, sibillina, unarmonica del tutto nuova per i canoni di Farina, tributo ad un menestrello di Duluth piuttosto che semplice rinforzo della flessuosa andatura jazzata dei pezzi. Fatto, questo, particolarmente manifesto nella ruspante Softly As She Sings, distillato blues dannata, e nelle briglie sciolte di Concaves.
Eppure, sarà stata la vicinanza marcata delle due uscite, spesso i brani del disco scivolano senza imprimersi nella memoria, recitano alla perfezione la lezione ma non vanno oltre una dignitosa, elegante mimesi. Un esempio? The Coldest War è lo stampo esatto, con un margine derrore ridotto al minimo, di Exclusive Hurricanes, uno dei pezzi chiave del precedente lavoro. Poi cè lintoppo autunnale di The Keystone, armonia fragrante ma dal gusto neutro, come diecimila già provate in precedenza. Hawaiian Sunshine vive di un fingerpicking in scala tropicale, con stoccate quasi bossa, ma sembra più esercizio di stile che appropriazione di un elemento estraneo alla ricetta ordinaria. Un peccato che si duplica, si triplica, si moltiplica esponenzialmente a raggiungere vette considerevoli, soprattutto in compresenza di un pezzo come Fours, uno dei più vicini al recente passato del gruppo e, paradossalmente, con il suo tono volutamente dimesso negli accostamenti di dissonanze, uno dei migliori.
Restano la classe, la carriera, un paio di canzoni bellissime ed un altro lavoro da cui attingere. Poco? Dipende dai gusti.
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