R Recensione

7/10

Small Town Boredom

Autumn Might Have Hope

Certi dischi richiedono un ascolto stagionale. Propongono il proprio fascino per alcuni seletti giorni dell’anno, nei quali riescono a schiudere le loro bellezze che in altri momenti ci appaiono solo fastidiosi artifici. Stagioni dell’animo, per lo più, si intende: “Autumn Might Have Hope” o lo si ascolta in autunno, o in giorni in cui pare di essere in autunno, giorni in cui le cose attorno o dentro di noi si sfaldano. Solo così può arrivarci senza tramiti tutto il suo assopimento incantato.

Composto da due scozzesi (Fraser McGowan e Colin Morrison) affascinati dall’apatia provinciale, il disco – pubblicato, per il momento, solo in vinile – è un esperimento monotematico piuttosto interessante. Un disco che gioca sulla ricostruzione nostalgica di un esilio soporifero dove scivolare, sulla dolcezza della malinconia, sull’immobilità atemporale e atonale delle dimensioni ‘in minore’.

Un folk lo-fi e minimale, smaccatamente fatto-in-casa, è il rivestimento scelto dagli Small Town Boredom: arpeggi di chitarra, un pianoforte che emerge carsicamente, violino, organo, batteria esilissima, scarti no-fi a rendere più fisico l’intimismo, una voce volutamente spenta, sfibrata, quasi atarassica, che accenna i testi sottovoce, come nelle pause tra i singhiozzi, come indebolita dal dolore e dalla volontà di arrendersi al silenzio. È un album snervato, pallido, tubercolotico, di un convalescente che non vuole guarire, anzi, di un sano che vagheggia la malattia, e allora si rifugia nella quiete imperturbabile dei villaggi sperduti per condividerne il senso di fragile impotenza.

Sono motivi poetici, già assai poetizzati (i crepuscolari, da noi). E difatti molti brani affascinano, rapiscono chi ascolta in una quiete di caligini e brughiere, lontanissima dai turbinii metropolitani. “Apologies For Apathy” (titolo esemplare: l’apatia è sentita come colpa per la quale scusarsi, ma resta condizione inevitabile), in apertura, è una deliziosa ballata dell’introversione, mentre “Understanding Blackness”, in chiusura, ha qualcosa dei momenti catatonici dell’ultimo Scott Walker.

Ma sono molti i pezzi che scavano in profondità con le loro note rade e scheletriche: “Elder Park & All That Followed” è dolce e triste chamber pop, melodicamente struggente nell’alternanza delle due voci; “Sympathy For The Drowning” si snoda in un torpore profondo, tra una batteria accidiosa e una voce flebilissima; “The Great Lodging” preferisce accordi pieni e qualche sterzata di elettrica sullo sfondo che sanno di motel abbandonati su strade secondarie.

I testi parlano di esclusione, solitudine, aridità, incomprensioni, asimmetrie sentimentali ("you were in the bathroom falling apart, I was in the front room resting my heart”, in “Our Valentines Day Rebellion”), con frequenti rimandi alla toponomastica locale (Thornhill Road, Elder Park, Crookston Line) che aiutano ad immergersi nel bagno di brume nordiche, come in un veleno.

Perché sprofondare, allora, in questo trionfo di decadenza, in questo vagheggiamento post-moderno di uno spleen di altri tempi? Perché ancora la provincia, la malattia, la noia, l’autunno, i parchi desolati, gli amori infelici? Perché amare un brano come “Fireworks”, due minuti abissali di voce e pianoforte color seppia? Perché non farsi venire qualche perplessità da questo intontimento senza via di scampo, alternativa, prospettiva di rinvigorimento, da questo progetto in cui tutto, moniker copertina e titoli, sembra orchestrato in modo sospettosamente programmatico? Perché lasciare che l’accasciamento dilaghi? A ciascuno la risposta, perché ciascuno ha i propri autunni.

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