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R Recensione

9/10

Scott Walker

Scott 4

C’è un momento negli ultimi, fatali secondi di “On Your Own Again”, che ti si imprime nelle carni e marchia a fuoco la tua esistenza. Quelle poche battute in cui lo stream of consciousness “spectoriano” si placa di colpo e la voce, nuda, scandisce semplici parole capaci di scavarti nell’anima: “Except when it began, I was so happy/ I didn’t feel like me”. L’epitaffio di chi ha amato e ha perso. La vertigine dionisiaca che svapora nel grigiore della tappezzeria domestica. La seta degli archi lì giusto per asciugare le lacrime. Quell’interlocutorio cambio di chiave che chiude un capitolo della tua vita e lascia un punto interrogativo su ciò che farai e chi vorresti diventare. Un minuto e mezzo di puro genio.

Volendo, l’intero “Scott 4” (1969) potrebbe definirsi come trenta minuti scarsi di puro genio e, per una volta, l’appellativo non si spenderebbe a sproposito. All’epoca, il maudit Scott Walker – nativo dell’Ohio ma trapiantato a Londra – aveva già archiviato da due anni l’avventura giovanile Walker Brothers (salvo poi rispolverarla nel ’75 per lo spazio di tre album passati quasi inosservati) e aveva dato alle stampe i primi, acerbi (e coccolatissimi) frutti della sua carriera solista: zibaldoni capaci di alternare brani autografi, riletture di classici europei e tristi ballate confezionate appositamente per il suo crooning pastoso. “Scott” (1967), “Scott 2” (1968) e “Scott 3” (1969) furono grandi successi in termini strettamente commerciali (il secondo si affacciò persino al primo posto delle classifiche inglesi) ma, eccezion fatta per il maturo e succulento terzo capitolo - Marc Almond se lo ricorderà bene all’inaugurazione del progetto Mark & The Mambas - assai meno riusciti sul piano artistico.

Di pari passo, Walker approfondiva i suoi studi sulla musica classica e contemporanea (la partitura per archi di “It’s Raining Today”, sempre su Scott 3, ricalca le irraggiungibili “Atmosphéres” di Gyorgy Ligeti), affinava il proprio songwriting e – giusto per aggiungere un dettaglio glamouroso – conduceva uno show televisivo personale in cui si cimentava per lo più con brani altrui di diversa provenienza (gran parte di quel materiale è raccolto su “Songs From His T.V. Series”, a tutti gli effetti il quarto lavoro di studio del Nostro). Tutto, insomma, lasciava presagire quell’imminente exploit creativo che, di lì a poco, avrebbe dato alla luce il magnum opus del suo catalogo ‘60s.

Era l’estate del 1969. Oltreoceano i folletti hippy proliferavano come (e con) funghi allucinogeni e celebravano con spensieratezza i loro ideali sempre più vaghi e nebulosi. Si viveva nell’illusione del cambiamento. Si era certi che qualcosa sarebbe cambiato. A dir la verità, fra le file più in vista del Movement già si respirava aria di riallineamento o di evasione dal tam tam dei cortei, anche se allora si preferiva sostenere che il ritiro dalla vita cittadina rispecchiasse più un desiderio di naturalità, di un ritorno a quel rustico sogno americano fatto di fattorie, pascoli floridi e colline erbose.

Era l’anno della contestazione “bucolica” dei Jefferson Airplane, della propaganda punk degli MC5, della magnificazione del trip edonistico operata dai Grateful Dead, i più narcisi di tutti. Al di qua dell’Atlantico, i Fairport Convention seguivano l’esempio della Band e imbastardivano il rock con il voluminoso breviario del folk tradizionale britannico, scoprendo un mondo di vocaboli in disuso che era sacrosanto (ed eccitante) rispolverare e riplasmare secondo nuove esigenze espressive. Era anche e soprattutto l’anno dei grandi “outsiders”: degli excursus progressivi zappiani, dell’irrazionalismo “matematico” di Beefheart, del lo-fi schizoide di Skip Spence.

Completamente disinteressato a quanto stava accadendo nel suo paese d’origine e per nulla preso dal boom “folkloristico” che impazzava in Terra d’Albione, il tenebroso Walker pareva su un altro pianeta. Il suo motto? Bruciare i vestitini a fantasie colorate dei figli dei fiori e tirar fuori dal guardaroba – dove stavano da anni a far da cibo per tarme – i maglioncini neri a collo alto tanto amati dagli esistenzialisti parigini degli anni ‘50s. Tradotto in termini musicali: al rogo le vertigini psichedeliche e lunga vita al decadentismo autodistruttivo alla Jacques Brel che però non disdegna orchestrazioni languide di scuola Bing Crosby e Nat King Cole.  

Stranamente, in quel suo ricercato isolamento artistico, Walker riuscì ad essere ben più preveggente di molti suoi colleghi “floreali” e a guadagnarsi rispetto e stima fra le fila del nascente glam-rock (Bowie stesso ne decanterà le lodi in più occasioni). Per non parlare del plotone di ammiratori e/o seguaci che il Nostro ammucchierà durante gli ‘80s e i ‘90s (dal già citato Marc Almond al cerebrale esteta David Sylvian, dagli Associates di Billy MacKenzie a Gavin Friday, dai Pulp al Nick Cave “ripulito” di “The Good Son”): decenni in cui il lascito di Walker ha attecchito in modo sorprendente nell’immaginario di giovani leve sedotte dal suo dandismo aristocratico e dal tepore del suo canto tenorile.

Primo album di Walker composto interamente da materiale originale, “Scott 4” si fa portavoce di un livido cantautorato orchestrale che asciuga Burt Bacharach da ogni sbavatura “sunshine pop” e aggiorna la lezione del Frank Sinatra più elegante e notturno di “In The Wee Small Hours”. Un “classico”, insomma, che si rifà ai nomi tutelari della tradizione americana pur ripiegando su un afflato decadente e malinconiche fragranze pop tipicamente europei.

Gesto di febbricitante ansietà espressiva, l’opera si districa abilmente in una selva di riferimenti dotti e condensa tutte queste magnifiche, ampollose ambiguità di linguaggio in dieci brani dai violenti chiaroscuri emozionali.

La processione “bergmaniana” di “The Seventh Seal” è l’incipit perfetto, nonché ghiotta occasione per amalgamare i “segni” del Morricone più austero (i rintocchi di campane, il volteggiare “iberico” sui tasti della chitarra nylon, gli interventi solisti della tromba), la sacralità di un coro gregoriano e, naturalmente, il marmo bianco di quella voce calda (quasi un controsenso, no?) che si distende fra le ferite sanguinanti di una mortalità quasi urlata.

“Angels Of Ashes”, all’opposto,volteggia leggiadra e “cinematica” fra i passi di un clavicembalo e gli svolazzi aerobici di violini mai così gonfi di pianto. La composizione è anche un primo esempio di quella scrittura “seriale” (trattasi, infatti, di un unico, ripetuto disegno melodico non soggetto a variazioni) che in “Boy Child” si fa pura staticità di archi “debussyani”; modulazione quasi scientifica (mi verrebbe da dire “ambientale”) fra forte e piano; romanticismo incorporeo alla Vangelis in cui la desolazione di Walker lambisce l’assoluto, la trascendenza. In due parole: il wall of sound di Phil Spector ridotto a spettro semiotico, minimalista nello sviluppo ma congestionato di preziosismi (si pensi al coro di dannati di“The Old Man’s Back Again”) che ne preservano intatta l’enfasi.

Molteplici, si diceva, le influenze che trapelano dal disco: una“Duchess” allo zucchero filato e la “valzerata” “Rhymes Of Goodbye” assimilano armonie folk e country (con tanto di steel guitar) in un simbolico tributo alla classe sopraffina di Hank Williams; “Get Behind Me”, a dispetto della cupezza che corrode le strofe, sfodera un chorus dal moderato appeal rockeggiante, con una chitarra elettrica finalmente in primo piano e accenni di soul, mentre è addirittura il flamenco che compare – opportunamente mimetizzato – nel tessuto armonico di “Hero Of The War”.

Risaltano le zone d’ombra, le tinte violacee che una produzione sontuosa – curata dall’amico e produttore di sempre John Franz su precise indicazioni dello stesso Walker – sceglie provvidenzialmente di non occultare: un trionfo di toni squillanti che emergono da blocchi di oscurità; un suono che ondeggia fra le sponde malaticce dell’abnegazione e galleggia come corpo riesumato, levigato a tal punto da risultare mera astrazione. 

Da testi trasuda una compostezza forzata sotto cui si cela un ingombrante senso di smarrimento, d’impotenza. Un disordine interiore che Walker, facendo propria l’acutezza linguistica di un Leonard Cohen,sceglie di comunicare attraverso vocaboli ricercati e metafore corrosive (i riferimenti a Stalin di “The Old Man’s Back Again”). È guardarsi attorno e non riconoscere gli oggetti che ti prolungano, le persone che ti passano accanto. Avvertire la fatiscenza del proprio respiro e il corpo come limite invalicabile. Il miraggio dell’eternità che sfuma in una contemplazione “sfatta” di ciò che manca e si vorrebbe accanto.

Come c’era da immaginarsi, il disco non solo fallì l’obiettivo di centrare per la quinta volta consecutiva la top ten britannica, ma faticò persino ad entrare in classifica. È probabile che su questo insuccesso quasi premeditato abbia influito la scelta di accreditare l’opera a Noel Scott Engel (il nome di battesimo di Walker): una mossa che certo non aiutò il pubblico di fine ‘60s – già di per sè disorientato da tanta cupezza emotiva – a farsi un’idea precisa di questo sibillino vaso di Pandora plasmato su misura per irretire (o annoiare) gli ascoltatori più distratti. Troppo “vecchio” (figuriamoci…), troppo “pesante”, troppo “letterario”.

Resta la musica, e quella contenuta in “Scott 4” è di livello eccelso. Una musica anomala per il tempo in cui fu incisa ma che, nel suo esacerbato coagulo di sintassi ed emozioni contrastanti, contiene prezioso materiale di studio da cui hanno tratto beneficio intere generazioni di musicisti (lo stesso Patrick Wolf sarebbe impensabile senza questo disco) e parallelamente traccia la via per i paesaggi terminali di “Tilt” (1995) e del recente, magnifico “The Drift” (2006): due opere che hanno esasperato l’enigmaticità dell'artista Scott Walker e confermato il posto d’onore che gli spetta nel sempre più multiforme panorama della musica contemporanea.

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Voto degli utenti: 9/10 in media su 32 voti.

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Dr.Paul (ha votato 9 questo disco) alle 8:55 del 14 settembre 2007 ha scritto:

un discone, il mio preferito, oltre ad aver influenzato in vari modi tutti gli artisti che hai elencato...aveva una voce della madonna, non ricordo se lo hai sottolineato nnn mi far rileggere...

riguardo i piu recenti tilt e the drift, saranno fantastici capolavori avantgarde, ma pesanti come mattoni specialmente the drift!

loson, autore, alle 15:49 del 14 settembre 2007 ha scritto:

RE:

Anch'io sono convinto che Scott 4 sia il capolavoro assoluto di Walker. The Drift e Tilt, come hai notato, eccedono nel minutaggio e sono eccessivamente "statici", a tratti un pò pedanti. Restano due album affascinanti, se non altro perchè sono il coronamento delle ambizioni "colte" di Walker. The Drift, in particolare, ha le sonorità più plumbee che Walker abbia mai concepito, da far gelare il sangue.

Marco_Biasio alle 10:51 del 14 settembre 2007 ha scritto:

Questo non l'ho ascoltato

Ma posseggo The Drift. Mai sentita così tanta disperazione, sembra un demonio a cui abbiano dato da bere litri e litri di acqua santa. Però bello...

Moonlight Love alle 18:31 del 19 settembre 2007 ha scritto:

La voce più bella,emozionante che abbia mai sentito;un genio forse non del tutto compreso,un precursore.I suoi pezzi ti accompagnano anche quando lo stereo è spento ed il suo cd ha smesso di suonare,la sua musica si perpetra nell'anima. Anche a me piace rispetto agli altri "Scott 4".L'ultimo "The drift" è di una cupezza funerea,una cappa di piombo inframezzata da frustate inferte allo spirito senza cerimonie.Complimenti per la recensione,è scritta in modo eccellente!!!!!!

barkpsychosis (ha votato 10 questo disco) alle 14:36 del 24 settembre 2007 ha scritto:

Sei il mio mito

hai recensito uno di quelli che mi ero ripromesso di fare io, ma devo di re meglio così perchè non avrei saputo recensirlo meglio questo capolavoro.

Totalblamblam (ha votato 8 questo disco) alle 22:05 del 15 gennaio 2008 ha scritto:

gli ultimi sui lavori mi lasciano freddo e perplesso

troppo manierati e prevedibili

il 3 e il 4 sono i miei preferiti

Paranoidguitar (ha votato 10 questo disco) alle 14:24 del 20 novembre 2008 ha scritto:

Stupendo

Capolavoro. Si può discutere sul fatto che the drift e tilt siano su quel livello. Però come godibilità credo che questo sia il migliore. Boy Child è da pelle d'oca.

Dr.Paul (ha votato 9 questo disco) alle 14:09 del 8 novembre 2009 ha scritto:

riascoltato ieri, si, il suo migliore! definitiely!

Madelaine (ha votato 10 questo disco) alle 16:02 del 8 novembre 2009 ha scritto:

Io non saprei scegliere tra questo e Scott III. Anzi, forse ultimamente preferisco proprio III.

Gar (ha votato 8 questo disco) alle 15:41 del 26 ottobre 2010 ha scritto:

Bene bene bene

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 17:35 del 26 ottobre 2010 ha scritto:

grande recensione, complimenti! e ovviamente disco superbo... estraneo per quell'epoca proprio perché fuori dal tempo. un percorso individuale slegato (per quanto possibile) dalle contingenze che (come dimostra ad esempio un Neil Hannon) non sfumerebbe e non perderebbe d'intensità se riproposto oggi per la prima volta!

Filippo Maradei (ha votato 10 questo disco) alle 18:20 del 26 ottobre 2010 ha scritto:

Scott Walker, Nick Drake, Tim Buckley, Warren Ellis, Robert Wyatt: datemi loro, e un Novembre di vino ingiallito, cartaceo lo scoppiettìo, tra la polvere e la legna di un viola camino...

Recensione splendida!

SamJack (ha votato 8 questo disco) alle 11:21 del 20 febbraio 2012 ha scritto:

Veramente un grande disco...

skyreader (ha votato 8,5 questo disco) alle 16:46 del 6 febbraio 2013 ha scritto:

Lavoro enorme sia dal punto di vista emotivo sia dal punto di vista sonoro: non so quante volte ho pensato che diversi fra i brani presenti in questo disco anticipavano il mood trip-hop, evocandolo "concretamente" di gran lunga prima che fossero inventate basi ritmiche e campionamenti.

Utente non più registrato alle 14:38 del 8 febbraio 2013 ha scritto:

Sicuramente un album bello, con degli ottimi brani.

Ma la musica e la voce le sento molto legate ad un modello "classico" derivante dal decennio precedente.

Preferisco Drake, Buckley, Harper...

Credo che l'ottimo primo album omonimo dei Cousteau, sia stato molto influenzato da quest'album.

Paolo Nuzzi (ha votato 9,5 questo disco) alle 13:33 del 2 ottobre 2014 ha scritto:

Favoloso, arrangiamenti perfetti, voce profumata di paradiso e testi poetici e sognanti. Il basso di The old Man's back again, poi, è da antologia!

Lepo (ha votato 10 questo disco) alle 15:43 del 2 ottobre 2014 ha scritto:

Capolavoro totale. E ancora modernissimo, oltretutto.

glamorgan alle 18:39 del 25 luglio 2015 ha scritto:

Ho provato ad ascoltare Scott walker e il Secondo. Mi sembra una copia di Tom Jones. Provero' a riascoltarlo

Dr.Paul (ha votato 9 questo disco) alle 19:45 del 25 luglio 2015 ha scritto:

ascolta The Old Man's Back Again e godi.....tom jones lo scarterai immediatamente...

braian-ino (ha votato 9 questo disco) alle 13:06 del 27 gennaio 2016 ha scritto:

Gin tonic e Scott 4 sul piatto.

TAAAC

FrancescoB (ha votato 10 questo disco) alle 22:59 del 29 marzo 2019 ha scritto:

Dopo Mark Hollis se ne va un altro inarrivabile. Questo disco mi mette quasi a disagio, e non so spiegare il perché. Sembra voler dire troppo, sembra osare troppo. Straordinario Loson e "The World's strongest man" figura tra le canzoni cui non rinuncerei manco sotto minaccia di morte.

Utente non più registrat (ha votato 7 questo disco) alle 17:59 del 7 ottobre 2019 ha scritto:

Buon album pop dal gusto retrò, con momenti intensi ed altri un po' blandi; l'unico del suo "primo periodo" che valga la pena di ascoltare. The Seventh Seal, The Old Man's Back Again e Boy Child le mie preferite. Tutte queste lodi sperticate mi sembrano un po' esagerate.