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R Recensione

6,5/10

TTNG

Disappointment Island

Non ci ho mai pensato, a dire il vero, ma l’analogia è stuzzicante. Che i This Town Needs Guns abbiano optato per un più agevole TTNG, sfruttando l’assonanza con i più giovani – e altrettanto talentuosi – BADBADNOTGOOD o, per gli amici, BBNG? I mondi musicali non potrebbero essere più distanti, d’accordo, ma, a ben vedere, sarebbe un modo semplice, geniale e tutto sommato involontario di contribuire alla propria promozione. Di sola fortuna non si vive, verissimo: ma i tre ragazzi di Oxford, per quello che hanno seminato, hanno raccolto fin troppo poco. Per dire: appena due o tre anni fa, un disco come “Disappointment Island” sarebbe stato salutato come capolavoro a prescindere, sull’onda di quell’entusiasmo revivalistico per l’emo storico che – assieme ai nomi pesanti dell’America che conta – portò a galla anche mediocri relitti dimenticati dal tempo ed una pletora di nuove formazioni di nessuno spessore. Invece – dopo il botto iniziale con il barocco “Animals”, il subentro infelice (non per chi scrive) di Henry Tremain per Stuart Smith e un convincente “13.0.0.0.0” – sul power trio inglese sembra calata quella cortina fumogena che rende visibili i gruppi ai soli ammiratori più accaniti, in attesa che il vento cambi direzione e spazzi via un po’ di nubi…

Un peccato, perché il terzo full length dei TTNG – sebbene arrotondato nelle forme espressive e virato, negli umori, verso quelle omogenee tonalità pastello catturate nella bella copertina – riconferma il buono stato di forma della band, incapace forse di scrivere un album generazionale, ma perfettamente in grado di garantire una solida continuità alle proprie uscite. “Disappointment Island” è un album che vive interamente di lampi, dettagli, singole intuizioni illuminanti: il quadro finale si ricompone quasi per magia, in una Gestalt sonora forse non innovativa, ma sicuramente efficace. Ai primi ascolti non è semplicissimo, ad esempio, comprendere quando, in “Whatever, Whenever” (il brano migliore del platter, per largo distacco), si inserisca quel malinconico arpeggiato post rock che, in un lento crescendo, porta ad una microesplosione noise accostabile – quantomeno per intensità – alle tempeste dei This Will Destroy You. Si tratta di una linea melodica presente sin dall’inizio, da quel dinoccolato attacco jazzato che sembra perdere qualche pezzo per strada (negli incastri strumentali aleggia un che, non a caso, di “+3 Awesomeness Repels Water”)? Ne nasce in seguito? Si inserisce parallelamente? Complicato abbracciare, in una sola visuale, l’infinità di insenature in cui si incunea la serpentina di chitarra in “There’s No ‘I’ In Time” (il cui ritornello giunge, dopo una processione spiraliforme per accumulo, solo a 2:22, ben oltre la metà della durata complessiva). Possiamo ancora definire “Disappointment Island” un disco pacificato quando, al netto dell’assenza di distorsioni, in “Destroy The Tabernacle!” trionfano tritoni e dissonanze post-core, o quando divampano senza preavviso fulmini hard rock in una “Sponkulus Nodge” tutta calcio e sponda matematica?

La mancanza di una marcata eterogeneità costringe l’ascoltatore a distrarre altrove molta della sua attenzione oppure, al contrario, a sezionare ogni brano con lo sguardo dell’entomologo. Questo aut aut radicale, c’è da dire, non aiuta a risollevare le quotazioni di un full length di per sé già non alla portata di tutti. La ricchezza armonica e la complessità di sviluppo di “A Chase Of Sorts” – fra tapping, legati, armonici naturali e arditi salti di tonalità: come i Don Caballero sposati ai Cap’n’Jazz – e emergono da dietro il paravento di un brano pensato per suonare “oscenamente pop” (ci perdonerà Bianconi). “Coconut Crab” si vuole proporre come nuova “Cat Fantastic”, accentuandone tuttavia le discontinuità rispetto ai punti di contatto: “Bliss Quest” le è melodicamente molto vicina, ma la parte centrale è cristallina astrazione math-jazz senza nessuna concessione alla facile potabilità. La chiusura contemplativa di “Empty Palms”, à la American Football, è forse l’unico santino palpabilmente devoluto alle proprie influenze novantiane e il momento in cui ogni elemento trova la propria quadra.

Che i TTNG non siano i BBNG, dentali e bilabiali a parte, è lapalissiano. Non per questo meritano di rimanere in quella penombra cui li costringono i ritmi frenetici della nostra contemporaneità. Prendetevi del tempo per ascoltare “Disappointment Island”: seppure in controtendenza, sarà una bella scelta.

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