Crystal Castles
Crystal Castles
Il senso di questo disco sta alla fine della prima traccia, “Untrust Us”. Dopo tre minuti di voce deframmentata dal vocoder e accompagnata da echi asfissianti e fraseggi elettronici da luna park, in un’atmosfera visionaria e alienante, emergono dal nulla tre secondi di sporchissimo punk. Errore? No. È un sample di “Dead Womb” dei Death From Above 1979, un duo che aveva praticato con rabbiosa devozione la commistione tra disco e punk. I due Crystal Castles, da parte loro, dopo anni di Ep e singoli spaiati, ci consegnano un lavoro puramente elettronico, con il punk (altrui) relegato in questo angolo. Perchemmai? Perché quell’inserto, più che un angolo, è il buco della serratura attraverso cui osservare l’intero disco. Elettronica suonata con attitudine punk (o al massimo post-punk), quindi; pura devastazione, febbricitante e drogata, costruita sui beats.
Ethan Kath programma; Alice Glass canta. Da Toronto, Canada. Dove non si fa solo indie rock. Loro si tirano fuori dalla fantomatica nu-rave in cui sono stati impastoiati dopo remix concessi ad amici vari (Bloc Party, “Hunting For Witches”; Klaxons, “Atlantis To Interzone”), e tutti regolarmente ce li ributtano dentro. Ma a torto. Perché in questo debutto di sedici canzoni (senza riempitivi!) c’è molto altro, per non dire tutt’altro, a partire dall’8-bit, ossia elettronica combinata a effetti sonori da Atari o Nintendo, da retrogaming in generale (pare solo leggenda che Kath suoni un synth dotato di scheda Atari incorporata): vedere alla voce David E. Sugar. E poi c’è qualcosa di electroclash (Ladytron), spuntano inclinazioni dark wave (White Rose Movement), si legge tra le righe un istinto synth-pop goticheggiante (The Knife), travolto da riferimenti house tra ottanta e novanta e persino da una certa eurodance allucinata.
Ciò che rende straordinario questo disco, però, è che tanta stratificata cultura musicale non toglie affatto l’anima alle canzoni. Al contrario. I Crystal Castles sono abilissimi nel far coesistere energia e atmosfera, rumore e melodia, archeologia tecnologica e disperante estetica contemporanea. Ne esce un lavoro angoscioso, soffocante, scurissimo, da metropoli notturna e autostrade squarciate da fari, sempre in bilico tra melodismo e furore noise.
La voce della Glass (piccola icona autodistruttiva) è quasi sempre strozzata, insabbiata da quintalate di effetti, scomposta artificialmente, e, quando è naturale, risulta isterica ed espressionistica. In “Alice Practice” è oppressa da cumuli digitali frantumati (rocce di Mario Bros?), che a tratti danno vita a brevi segmenti melodici devastantemente neri. Piccolo capolavoro avantgarde, così come la simile “Love And Caring” (come definirlo: electro-noise?), che offre i beat più violenti del disco. “Xxzxcuzx me” (farti cosa?) è una scarica electro-punk paurosa, è house calata in un Game Boy (andatatevi a sentire gli YMCK) e filtrata da una sotterranea vena new wave. Ed è pura brutalità.
Persino i momenti più distensivi, lungi dal proporre un piacevole chill-out che faccia uscire per qualche attimo dal tunnel, vengono sabotati da continue interpolazioni, macchie, insozzature, a dare un quadro confuso, destrutturato, paranoico. “Crimewave” obbedisce proprio a questa antiestetica synth-pop, che demolisce nel momento stesso in cui crea. “Air War” è ancora 8-bit immersa nella realtà: il computer-sound, come in un incubo, esce dal regno della tecnologia e si cala nella fisica e nella sensibilità delle cose vere. I sei minuti strumentali di “Magic Spells” sono disturbati da un loop subdolamente spettrale.
E il bello deve ancora venire. Perché la seconda metà del disco offre altre sorprese, che rendono l’idea, alla fine della fiera, di un gigantesco rimpasto dell’intera scena elettronica degli ultimi vent’anni: c’è spazio per una disco sospesa tra Miami e il Sound Factory di New York (“Knights”: Junior Vasquez o Danny Tenaglia girano da queste parti), per un electro-pop anni ottanta (“Vanished”; canta Van She), per oscurità nordiche (“Reckless”: The Knife, Royksopp e dintorni), persino per richiami europei anni novanta (“Black Panther”, l’unico momento davvero techno: ci sono gli Snap di “Rame”, forse addirittura la proto-trance di “The Age Of Love”).
L’impressione è che i Crystal Castles abbiano pubblicato come debutto una sorta di Greatest Hits tremendamente compatto, in cui tutto si tiene e tutto si sfrange. L’etereo finale acustico di “Tell Me What To Swallow” (impasticcamento dichiarato), un po’ Saint Etienne sfumati, lascia intravedere altri sviluppi. “Courtship date”, la punta di diamante del disco (dritta tra le canzoni dell’anno), apre uno squarcio sulla sotterranea sostanza di un’opera solo apparentemente algida. Maniacale, tormentata, piena di urla e di loop sfrigolanti che la fanno vorticare come una girandola impazzita, è la canzone-manifesto di una nuova poetica del caos visto dalla prospettiva di chi ne viene travolto – e proprio per questo prova il sadico gusto di ricrearne uno tutto suo.
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