R Recensione

6/10

Cold War Kids

Loyalty To Loyalty

Sono caldi eccome i ragazzi della guerra fredda, ma non ancora a puntino, non ancora rosolati per bene. Dopo il fulminante debutto di “Robbers & Cowards” torna in fretta e furia (letteralmente, quasi invasata) una delle indie band più amate e più denigrate d’America: se i loro concerti fanno sold out in ogni buco degli States e i blog a stelle e strisce li osannano, in molti dalla stampa specializzata storcono il naso. E chi se ne frega, si potrebbe dire. E chi se ne frega se Pitchfork ha preso di mira la band californiana come alle medie si prendono di mira i ragazzetti cicciosi e un po’ sfigati, massacrandoli di dispetti ogni volta se ne presenti l’occasione. Chi se ne frega, sì, se non fosse che ogni tanto le punzecchiature colgono nel segno.

Prima punzecchiatura. Nathan Willett. Voce particolare, la sua, sempre tesa, nervosa, a tratti nevrotica, piena di spigoli e acuti, non disdegnosa della lamentazione (“Avalanche In B”: valanga – di ululati – in Si), nel nome di una potente visceralità tra blues e rock’n’roll non sempre ben calibrata. Ecco: se è una voce che emoziona in certi passaggi, come nella tagliente “Something Is Not Right With Me”, è una voce che deborda in altri, come nella stucchevolezza tra saloon e cafè chantant di “Golden Gate Jumpers”, e che spesso risulta troppo sovresposta, troppo narcisistica, troppo intenta a guardarsi nella propria teatralità sofferta.

Seconda punzecchiatura. Jonnie Russell. Impeccabili gli stilemi blues della sua chitarra, ma non si capisce perché siano costantemente tenuti lontani, a distanza, come se fossero i ringhi di un cane che potrebbe mordere. “I’ve Seen Enough” è un pezzo di sangue e cattiveria (tra i migliori) che meriterebbe un bilanciamento dei volumi più energico. Allora spesso all’ascoltatore tocca lavorare un po’ di setaccio, e sgranare, abbassare, squagliare la voce di Willett per riuscire a penetrare nello scheletrismo terreno e ctonio degli altri strumenti (White Stripes, Two Gallants, Tom Waits: sì, insomma, tutto questo rock sapientissimamente ignorante che ci fa tremare le ossa) e godersi in santa pace lo strato fangoso del disco. E non dovrebbe funzionare così: lo vogliamo in faccia il fango.

Per fortuna a lanciarcelo ci pensa Matt Aveiro, la cui batteria selvaggia e tribalistica mette spesso i brividi. Basti sentire il dialogo orgiastico che intrattiene con Willett in “Welcome To The Occupation”, dove si sentono i Cold War Kids migliori, spasmodici, irrequieti, dionisiaci, tutti di questa terra, al di là delle tendenze dichiaratamente cristiane della band – e al di là di certi voli pindarici testuali. Peccato, dico, che questa sensualità sonora sia spesso attutita o sacrificata nel nome di rallentamenti da ubriacature annoiate, per cui al massimo si diverte solo chi si sbronza (Willett, chiaramente). Bene il tex-mex in salsa blues di “Mexican Dogs”, allora, bene il basso assassino di “Relief” unito al falsetto, stancante buona parte della seconda metà del disco.

Il calore ce l’hanno, questi ragazzi, ma ogni tanto, almeno su disco, sembrano dirigerlo dalla parte sbagliata. Sicché resta freddino il piatto, proprio dove vuole essere bollente, e forse le bruciature vere, come pare, le danno dal vivo, quando sono costretti a essere la band di petto che il policarbonato del ciddì non sempre permette loro di essere. E non rendersi giustizia non è mica una bella cosa.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 5 voti.
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