Cold Cave
Cherish The Light Years
Molti aficionados della prima ora sono concordi: Wesley Eisold ha, per usare un eufemismo, perso smalto. Daltronde, rivelare affinità di spirito con Pulp e Suede non può che preludere a uno stizzito bye bye dei fan più intransigenti, già messi a dura prova dalla coldwave prodiga di aperture "neworderiane" ascoltata su "Love Comes Close" (2009). Ma il dark boy originario di Boston ora domiciliato a Manhattan dopo aver girato a zonzo per gli States al seguito, fra i tanti, di American Nightmare, Give Up The Ghost, Some Girls e XO Skeletons ha tenuto botta come meglio non si poteva, prefissandosi un obiettivo che definire ambizioso è poco: Band come Pulp, Suede e Smiths hanno creato un mondo tutto loro. Non ho idea se quel mondo sia esistito o meno, ma visto da una prospettiva esterna sembrava incredibilmente reale. Anchio ho voluto creare un mondo mio, che comprendesse i miei amici e lo stile di vita che conosco.
Se è la norma imbattersi in musicisti britannici capaci (o rei, a seconda dei punti di vista) di trapiantare in patria sonorità americane, mutarle in ragione del diverso contesto e sovente esportarle, con fattezze inedite, di nuovo negli States, qui il processo è (parzialmente) inverso. Imbevuto di sound & style propri della wave inglese, Eisold prova ad adattarli ad una realtà la sua a stelle e strisce, riesumando sia la chitarra-feticcio del rabbioso passato hardcore punk, per quanto epurata dagli eccessi shittosi di "Cremations", sia labbecedario per testi emocore, nelle cui pagine è chiaramente esplicitato il disagio adolescenziale vezzeggiato dalle frange post-Husker Du (The empathy of breaking chains/ The sympathy in crashing waves/Careful boy, caution girl/I do not think we were meant for this world da The Great Pan Is Dead). Ecco perché quella di incidere un album profondamente americano non può e non deve essere interpretata come unuscita sarcastica; a meno che non ci si aspettasse una svolta countrynwestern, questo è chiaro. Il fine è quello di trascendere i limiti dellesperienza, coltivare non tanto la visione di unAmerica inglesizzata, quanto di una scenografia alternativa nella quale ricollocare lasse Londra Manchester: fiore dal fascino alquanto esotico per un teenager lo stesso Eisold da pupetto sballottato da un angolo allaltro degli States.
Su "Cherish The Light Years" trionfa una dark-wave granitica, dalle fitte nervature synth-pop e industrial, tatticamente su misura per la emo-generation. Un dolcefinto svenarsi a tinte fosche e lamette di cioccolata, con pantalone skinny macchiato di cerone goth. Pop in quanto inno, catarsi abilmente preordinata (come tutto il rocknroll). Pop infarcito di tagliente malinconia, desolatamente estroverso. Il sound è quello pieno di una band: Dominick Fernow (elettronica) e Jennifer Clavin (seconda voce e synth), più numerosi imput di conoscenze newyorkesi e non (da menzionare almeno Daryl Palumbo e Matt Sweeney). Sound tosto, nonostante il curriculum per buona parte agghiacciante del co-produttore Chris Coady (TV On The Radio e Beach House fra i salvabili). Un sound caratterizzato da compressione e frequenze medie a palla: coriaceo, potente ma attento alle sfumature, non banalmente boombastic come taluni vorrebbero far credere.
Limpatto è travolgente fin dalla galoppata iniziale, il singolo The Great Pan Is Dead, col suo ritmo a singhiozzo, il muro di chitarre alla Ministry e i synth ora frigoriferi, ora ciliegie candite; si aggiunga, in ultimo, il canto enfatico di Eisold, impetuoso come mai prima dora, et voilà! La Common People dei Cold Cave è servita. Ma siamo solo allinizio. Tempo mezzo secondo ed ecco sfilare un trittico sublime: la girandola vorticosa (ma sfiorita) di Pacing Around The Church; la meraviglia mid-tempo di Confetti, con tanto di sei corde alla Violator; il saltellare vagamente smithsiano di Catacombs. Con Underworld USA sfrecciamo decisi nel tunnel NIN, ma in prossimità del ritornello cimbattiamo nientemeno che negli Afghan Whigs di Double Day. Ancor più pronunciato il retrogusto EBM di Icons Of Summer, laddove Black Sage resta saggio industrial che Eisold ha perfezionato al doposcuola di Genesis P-Orridge. La tesi di Alchemy Around You è dimostrare che una scheggia post-punk alla Ceremony possa accompagnarsi a fanfare di trombone senza rievocare herculeggiate di sorta (e ci riesce: il paragone più prossimo resta il pop da Stregatto dei Teardrop Explodes). La chiosa di Villains Of The Moon, infine, è semplicemente perfetta: solenne ma dinamica, riesce nel duplice intento di accompagnarci alluscita e, intanto, pugnalarci al cuore con un ritornello (lennesimo) da mandare a memoria.
Chi pensa, insomma, che Cherish The Light Years sia un pasto monoporzione resterà sorpreso (o deluso, se il fine era spernacchiare lennesima proposta legata agli 80s): qui cè antipasto, primo, secondo, dolce, caffè, ammazzacaffè e sollazzo pomeridiano. Tradotto: compattezza stilistica, personalità, e una sequenza di canzoni a dir poco impressionante. Canzoni dalle quali si palesa unidea di pop rock capace di parlare a più bacini dutenza, senza per questo ridursi a compromesso di facciata; capace, soprattutto, di abbracciare diversi strati di consistenza: linnodia adolescenziale come il flagello nichilista, il ritornello da cantare in singalong come le sofisticazioni produttive per i palati più smaliziati. Unidea di pop rock della cui mancanza ci si lagna a ogni piè sospinto, salvo poi arricciare il naso e accusare di giovanilismo (o peggio, di sterile derivativismo) chiunque simpegni per raggiungere lobiettivo. Accuse che, puntuali, pioveranno addosso anche a questo disco. Ma ormai ci abbiamo fatto il callo.
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