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R Recensione

6,5/10

Henry Fool

Men Singing

Da Tim Bowness ci si aspetta sempre di vederlo coinvolto in contesti nei quali le sue dote canore (riconducibili a quelle di un David Sylvian introverso e dimesso) si sposano a quelle pose da crooner crepuscolare che ben lo contraddistinguono. E invece scopriamo che l’idea che ci siamo fatti di lui attraverso i lunghi anni di sodalizio con Steven Wilson nei no-man e nei tanti progetti per i quali è stato “complice” (fra i più recenti quello in combutta con Giancarlo Erra, Memories Of Machines), non sono evidentemente sufficienti a definire le qualità da musicologo che caratterizzano la sua poliedrica personalità: discorrere con lui dei più importanti dischi della nostra vita è stato per me più appagante di qualsiasi intervista. Bowness, dismessi i panni del vocalist, si getta a capofitto – con la sua chitarra a tracolla – in un gioco che ama guardare agli Anni ’70 con gli occhi del presente, senza far evaporare lo spirito sperimentale che li ha animati: in “Men Singing” (titolo fuorviante, visto che nell’album non c’é neppure una nota cantata), assistiamo alla più moderna incarnazione possibile delle illuminazioni che furono proprie della scena di Canterbury, una incarnazione desiderosa di ibridarsi tanto con le visioni  psichedelia, tanto con il post-rock più infatuato del free-jazz, facendo propri gli elementi che hanno innervato l’avvio della new-wave e, ancora prima, le intuizioni del krautrock.

Così questa strana entità sonora – che prende il nome dall’omonimo film del 1997 di Hal Hartley – giunge al suo secondo capitolo, a distanza di dodici anni da un debutto che ampi consensi ebbe ai tempi della sua release. Ancora oggi si gioca la partita della contaminazione plurima: i quattro lunghi brani (due oltre i tredici minuti, due attorno ai sette), dimostrano una volontà di individuare, attraverso un lungo processo di improvvisazione in studio, un salutare modo per partorire composizioni incompromissorie, frutto della scrittura di Tim Bowness e del tastierista Stephen Bennett. Gli altri artefici di questa magia atemporale sono Michael Bearpark (chitarre), Andrew Booker (batteria), Myke Clifford (sax e flauto) e Steve Bingham (violino). Preziosa la collaborazione di Phil Manzanera, storico guitarist dei Quiet Sun e dei Roxy Music, in Man Singing e in Everyone In Sweden che, guarda caso, sono anche i pezzi che più si fanno amare.

Hatfield & The North, Pink Floyd, il Miles Davis di “In A Silent Way”, Weather ReportCluster, i Porcupine Tree mesmerici degli esordi: sono solo alcune delle presenze che aleggiano in “Men Singing”, un disco dall’andamento suadente che senza sentire mai il bisogno di affrettarsi, ama indugiare sulle articolate trame che intrecciano idee e visioni, dimostrando una propensione per le divagazioni oniriche.

Una maggior attitudine alla concretezza avrebbe forse giovato all’identificazione dei temi che più meritavano di essere sviluppati per raggiungere una forma più compiuta e meno ondivaga: ma “Men Singing” vuole giocare la sua carta proprio sul terreno impervio della jam-music, terreno sul quale la possibilità conta di più del risultato.

 

E a suo modo ciò che ascoltiamo è qualcosa di diversamente affascinante e tale da farci rivedere la definizione stessa di “musica d’atmosfera”.

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