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R Recensione

5/10

The Mount Fuji Doomjazz Corporation

Egor

I The Mount Fuji Doomjazz Corporation sono l’altra faccia della medaglia dei The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble (in pratica gli stessi musicisti), ma con identità ancora più tesa alla sperimentazione, abbandonando la sfera delle colonne sonore e fondendo in modo ancora più ardito gli elementi chimici che sono alla base della loro ispirazione, quasi a ribadire la provenienza da ambiti universitari (la Utrecht School Of Arts in Olanda, nello specifico): il collettivo (nella cui line-up sono confluiti strumentisti provenienti da altri paesi europei) articola il suo manifesto sonoro attraverso una inquieta ricerca di panorami rarefatti, frutto di improvvisazione più che di composizione, in cui rumori e melodie si addensano fra loro, senza lasciare che il flusso emozionale venga leso da semplificazioni architettoniche. Ciò che scaturisce, nel corso di session unica (registrata dal vivo al Dom di Mosca, esattamente un anno fa), è una opera densa e stratificata, dai lineamenti “drone”, che indulge molto nei territori dell’avant jazz, ma senza sussulti o impeti improvvisi: le impennate soniche arrivano gradualmente, scuotendo l’ordine costituito con irruenza doom-noise. Quello che i The Mount Fuji Doomjazz Corporation hanno ben chiaro nelle proprie teste è che la loro musica debba erigere non monumenti al virtuosismo, bensì templi alla percezione sensoriale, consolidandoli in un lento divenire, con un forte sentire di uno scopo comune a tutti i musicisti coinvolti, sebbene a farsi carico delle responsabilità della regia siano i soli due leader e “producers” Gideon Kiers (elettronica) e Jason Köhnen (basso fretless e contrabbasso). La voce di Charlotte Cegarre (laureata al prestigioso Paris College Of Music), spettrale e versatile, sottolinea i lunghi momenti nei quali l’uniformità sonora è messa in discussione: in realtà la sua abilità trascende la semplice capacità di aggiungere pennellate dal tinte fosche alle complesse trame intrecciate dai componenti della formazione. Eelco Bosman alla chitarra, Ron Goris alla batteria, Sarah Anderson al violino e Hilary Jeffrey al trombone divengono e una vera propria orchestra dell’impossibile che edifica suoni alla temerarietà e che sfida la comprensione (nel terzo movimento dell’album si sopravvive a fatica ad un ampio excursus che rasenta lo smarrimento).

La proposta dei The Mount Fuji Doomjazz Corporation è godibile quasi esclusivamente per il suo rivestire le circonvoluzioni cerebrali con uno spesso manto nero che toglie ai sensi la capacità di orientarsi. In contesti analoghi i Dale Cooper Quartet & The Dictaphones si erano espressi con maggior coerenza, sobrietà e voglia di comunicare.

Non si dovrebbe confondere il coraggio (e l’abilità attraverso cui questo viene veicolato) con il messaggio che si intende comunicare: esistono strati densi di significato anche nella musica pop che hanno l’audacia di sfidare il cervello (i Talking Heads sono stati sono uno dei casi più esemplari nella sintesi fra encefalo e cuore). Questo “Egor” sinceramente appare come una ordalia un po’ fine a se stessa, che non promette premi a coloro che superano l’ardua prova. Il fascino complesso – esito di quel solletico alla propria intelligenza – che pure può emerge ad un primo ascolto, svapora completamente quando deve misurarsi con la volontà di rimandare in play l’intero opus.

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