Picchio Dal Pozzo
Picchio Dal Pozzo
“Dunque, Rusf è una donna
ovunque Madonna, Madonna
allora guarda la palla
finora cavalla, cavalla
mango trita carota
fandango Toyota Toyota
Silvan laggiù nella belva
salva selva selva
picchio dal pozzo
boh boh boh” *
(da “Seppia”)
O Canterbury, perché sei tu Canterbury? Ma soprattutto: cosa ci fai in trasferta in Liguria? Mare, salsedine, sabbia ghiaiosa, piante di limoni, mura cotte dal sole… e che è? La pioggia non ti manca? Persino il tuo sindaco ad honorem Robert Wyatt se ne doleva, in pieno tour americano con i Soft Machine: “Ah, but I miss the rain - ticky tacka ticky…”. Già, bei ricordi. Aspè, ho un sospetto… Sarà mica tutta una bufala? Fa un po’ vedere l’anno… 1976!? Naa, allora c’erano già i punk! Eppure i mille e passa gnometti di ‘sta copertina parlano chiaro, e così il suo tenerissimo cielo quadrettato. Vuoi vedere che la storia dei progsters spazzati via da una bomba H sul finire del 1975 è una mezza balla? Mi sa di sì: basta dare uno sguardo a cosa accadeva in Argentina, per non dire in Canada o in Francia. Vabbè, qui da noi lo stallo era pressochè totale, ma altrove…
Altrove continuavano a scriversi pagine di grande musica, a volte persino superiori a quelle partorite nella prima metà dei ‘70s progressivi. Voli pindarici a parte, vorrei fosse chiaro un concetto: qui si sta recensendo (fantasticando, immaginando) un disco di sogno; la scusa del “fuori tempo massimo” va bene per chi ha della storia del rock una concezione talmente poco elastica da immaginarsi fratture nette (e scomposte), capaci di portare all’immediata estinzione del “potenziale artistico/comunicativo” (concettone…) di correnti pre-esistenti.
“Picchio Dal Pozzo” non è pedissequa enunciazione di teoremi canterburiani in terra italica. E se anche fosse, resterebbe uno dei pochi esempi in tal senso, per non dire l’unico. “Picchio Dal Pozzo” è molto, molto di più. Intersezione pulsante di jazz-rock, spunti favolistici, un gusto tutto “italo” per gli agganci melodici, celestiali elevazioni pianistiche, slanci prog, minimalismo pop, visioni surreali, bandismi circensi, accenti “zappiani” (ma si ha in mente lo Zappa più astratto e defilato, quello dei cinguettii di flauto e marimba che beccavano, volatili, le carni chiodate del Frankenstein “Uncle Meat”). Disco storico, fra i monumenti del progressive tutto, “Picchio Dal Pozzo” giunge fino a noi da un luogo lontanissimo (non è vero, ma è bello pensarlo). Un luogo che non è Canterbury, non è Genova e non sta nemmeno sul mappamondo. Un equivalente della “Terra di Grigio e Rosa”, ma al tempo stesso più solare, naif, surreale. Un luogo in cui storia e fiaba collidono in un medioevo “inventato”, parco giochi scavato fra costellazioni di sogno, muscolo cardiaco che odora di terriccio e illumina a stella la città in festa. L’anima bella delle cose.
Descriverlo significa sbirciare nello studiolo dove i musici-alchimisti Aldo De Scalzi (tastiere, percussioni, voce), Giorgio Karaghiosoff (fiati, percussioni, voce), Paolo Griguolo (chitarre, percussioni, voce) e Andrea Beccari (basso, corno, percussioni, voce) traslano la meccanica del volo in un contesto musicale, possibilmente caricando ogni brano di stranezze, stratificando gli arrangiamenti, zigzagando i percorsi melodici. È così che, assieme ad un nutrito gruppo di ospiti, il quartetto ligure delinea una musica frastagliata ma vicinissima al cuore: la spirale chitarra classica/xilofono di “Merta”, presto teletrasportata sulla cintura di Orione da un drone di tastiera e fragilissimi vocals alla Wyatt; il soft-jazz all’uncinetto, stile Hatfield & The North, di “Cocomelastico”; il girotondo rinascimentale di “Bofonchia”, breve introduzione al colosso “Napier” che, nella sua apparente concezione “libera” del dettato musicale, inanella fanfare senza tempo, rondò burleschi ed echi di Olivier Messiaen.
Altrove l’impatto è decisamente più… paranoico. Come nelle prime due parti di “Seppia”, vertigine cosmica introdotta da un minaccioso motivo di tastiera, subito azzannata alla gola da un giro di basso fuzz che è cattiveria allo stato puro (sembra di ascoltare Mani dei Primal Scream su “XTRMNTR”!) e batteria già trip-hop. Carpiti da quest’uragano sonico, si odono borbottii di corno, radiazioni atonali di synth, nonché un malloppo di voci deliranti, oppiacee, schizofreniche. Di tutt’altra pasta il vortice emotivo di “La Floricoltura di Tschincinnata” che, fra cambi di marcia e temi “accessori”, traduce in note e suono ogni gradazione intermedia fra gioia e malinconia (memorabile la sezione che parte da 2:01 con fraseggi di rhodes ed esplode in una marcia con doppia batteria e svisate free).
È però con due momenti introspettivi, candidamente circolari, che si chiude il disco. “La Bolla” e “Off” sono poemetti per piccolo ensemble, quasi complementari: l’uno inflessibile sotto l’aspetto metrico, impostato su accordi modali, percussioni, trilli chitarristici e sax “coltraniano”; l’altro, tenue moto ondoso, forte d’un pianismo intensamente spirituale, metà Florian Fricke (Popol Vuh) e metà Alice Coltrane, su cui s’adagia un tema flautistico da lacrimarci su per secoli. Non ci sono vocaboli sufficienti, o almeno io non li trovo, per trasmettere la mistica che promana da questi solchi. Immaginatevi di essere in volo e guardare il paesaggio, mentre accarezzate le nuvole e vi accorgete della bellezza. Immaginatevelo… No, neanche questo basta.
“Dedicato a Roberto Viatti”, si legge nelle note di copertina. Burloni. D’altronde l’influenza di “Robertone” è innegabile (quelle vocette…), e omaggiarlo così affettuosamente era il minimo. Eppure – non ci si stancherà mai di ripeterlo – in quest’opera c’è tanto altro. Graziati da un’immaginazione melodica davvero fuori dal comune, i Picchio Dal Pozzo sfoggiano altresì una sensibilità tutta italiana nell’impastare, con cuore e cervello, mondi fra loro assai distanti, travalicando preconcetti e cliché. Non a caso, la proposta della band ligure si poneva già allora in sostanziale alterità sia rispetto all’ala politicizzata del R.I.O., sia rispetto al progressive più o meno sinfonico/più o meno hard che imperversava nella penisola. Uno dei pochi, veri “miracoli italiani” di cui esser testimoni, checché ne dicano i detrattori.
* Forse i versi più ossessionanti, insensati, meravigliosi, stupidi e indimenticabili di tutta la musica italiana. Panella gli fa un baffo, troppo intellettuale lui; si capisce che dietro i suoi testi c’è uno studio accurato, una ricerca di senso. Idem il Battiato pop dei tempi d’oro: palesemente cosciente d’ambire al nonsense articolato, desideroso d’emanare fascino colto. Quelli di “Rusf”, invece, paiono versi scritti da un (geniale) decenne. Se poi tenete presente che a leggere siffatto popò di roba è una tale Cristina Pomarici, con un’inflessione vocale monocorde da bambinella stupita (presente Amanda Sandrelli/Pia in “Non Ci Resta Che Piangere”?), allora concorderete con me circa la comica solennità del momento. Per il resto, trattasi di una manciata di rime baciate (“carota/Toyota” non ha prezzo), vaghe assonanze e allitterazioni a dir poco bislacche. Rime baciate, si diceva, tranne gli ultimi due versi dove al richiamo di “picchio dal pozzo” giunge soltanto uno sconcertante tris di “boh” (intellettualizzando all’inverosimile, chissà che questi ultimi non racchiudano il “sentimento di resa” che proviamo di fronte all’imperscrutabilità del linguaggio, della musica, dell’esistenza tutta…). Ripeto: credo non esistano parole altrettanto sciocche e meravigliose. Se non fossi certo di farmi cremare, le vorrei incise sulla mia lapide.
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