DM Stith
Heavy Ghost
Che David Stith fosse un tecnico della musica lo si poteva intuire dalla collaborazione, grafica ma non solo, che offrì a Shara Worden, alias My Brightest Diamond, nel suo esordio “Bring Me The Workhorse” (un disco, per chi non avesse avuto la fortuna di ascoltarlo, non propriamente banale). Qui, al debutto sulla lunga distanza, l’americano dell’Indiana lo dimostra una seconda volta, partorendo un lavoro artatamente complesso che potrebbe fare da paradigma all’indefinibilità di molta musica recente.
“Heavy Ghost” si contorce tra folk e avanguardia, si insinua in un intimismo cameristico per poi complicarsi di concettosità, divagazioni a-melodiche, cacofonie, overdubbing furioso di voci ed effetti, rimandi classici. Sicché, alla fine della fiera, è un disco inqualificabile. E non si pensi che la sua sfuggevolezza alle etichette sia necessariamente il migliore dei pregi: in questo caso, a ben vedere, si trascina anche non trascurabili difetti, in quanto nasce da un farraginoso elefantismo in fase di registrazione segno di una certa confusione di fondo. Troppi bizantinismi, insomma, accanto al sangue vero.
Così “Isaac’s Sons” e “Spirit Parade” sono due interludi caotici dominati dai vocalismi spiritati di Stith, mentre “BMB” e “GMS” (mannaggia l’ermetismo...), entrambe guidate dal piano, non decollano, soprattutto la prima, intruppata nel finale in una serie di disturbi rumoristico-dissonanti. Meglio, e molto, dove Stith sporca senza eccessi le proprie creature introverse: “Pity Dance”, folk pshichedelico dalle sfumature cupe con arpeggi labirintici ed effetti visionari, esplode in un crescendo orchestrale emozionante, e “Pigs”, nello sfogo lamentoso del falsetto sopra una chitarra di nylon, avvolge anche nel finale quasi ambient.
E in tutto il disco si alternano momenti bui con qualche titolo di gratuità in cui lo Stith tecnico affoga la sensibilità del cantautore (“Wig”, di nuovo tra drones e ambient, con la sponda dei Sigur Rós, e la coda nonsense di “Morning Glory Cloud”) e passaggi intensi in cui la passione deborda. lasciando incantati (“Thanksgiving Moon”, “Braid Of Voices”, mini-suite con atmosfera incorporea, sovrapposizioni vocali quasi da Enya al maschile e un crescendo orgasmico: eccellente).
Sicché “Heavy Ghost”, soprattutto dopo ascolti ripetuti, lascia addosso qualcosa del suo ipnotismo vagamente ascetico (e persino festoso nel trionfo di hand-clapping e violini tremuli di “Fire Of Birds”), pur costringendo l’ascoltatore a un lavoro di setaccio e disimbrogliamento non irrisorio. Meno confusione, la prossima volta, man, e il capolavoro arriverà.
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