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R Recensione

7/10

Dr. Dog

Shame, Shame

Solo per rendere l’idea di quanto i Dr. Dog si divertano. Scott McMicken, una sera, si sente particolarmente depresso. Esce dalla sua casa di Philadelphia ed entra nel bar alla fine dell’isolato. Lì trova due amici, Jackie e John, in condizioni simili alla sua. I tre, tra una birra e l’altra, parlano, discutono dei massimi sistemi, si sfogano, fino a notte fonda. Quando Scott torna a casa, si sente completamente cambiato rispetto a prima, energico e positivo, e allora si mette al piano e scrive una canzone in cui ricostruisce quelle due ore di chiacchiere che gli hanno cambiato l’umore. Scrive “Jackie Wants A Black Eye”. Al momento di registrare il brano, i Dr. Dog chiamano in studio i veri Jackie e John, chiedendo loro di prestare le voci per il ritornello. «You could say that we are lone, but we are lonely together», canta McMicken, in un’orgia pop macchiata di soul. Esaltante (la sentite qua sopra).

Questi sono i Dr. Dog, e questo è “Shame, Shame”, sesto disco della band di Philly, ma, a loro stesso dire, sorta di nuovo debutto: per la prima volta dal 1999 i cinque escono dallo studio e si fanno produrre da altri (Rob Schnapf, già collaboratore di Beck ed Elliott Smith), cercando di coniugare il più possibile il proprio sound smaccatamente retrò con un pop à la page e melodico. Il risultato è un disco più prodotto e più ‘furbo’, che forse non esalterà chi amava i vecchi (in tutti i sensi) Dr. Dog, ma che potrebbe finalmente dare loro un meritato riconoscimento dopo anni vissuti nell’ombra (ultima, nel 2008, quella dei Fleet Foxes, con cui in realtà condividono solo l'amore per una certa coralità '60, ma come tanti di questi tempi).

E qui di ombra ce n’è davvero poca: l’incrocio tra roots americane e ammiccamenti inglesi, The Band e Beatles, alt-country, folk e indie pop più scanzonato, con il carrozzone di nostalgici sixties dell’America più recente al seguito (Vetiver, Wilco, Fruit Bats, Blitzen Trapper), resta sempre su un registro deliziosamente solare. Di undici pezzi non se ne trova uno senza un’invenzione melodica irresistibile (a partire da “Stranger”) o una soluzione strumentale definitiva (gli assoli finali in “Unbearable Why” e “Where’d All The Time Go?”). Derivativi, sì, i Dottor Cane, ma dalla vena compositiva eccellente.

L’alternanza vocale tra Toby Leaman e Scott McMicken non fa perdere omogeneità al disco, tanto che alla fine può persino spuntare con naturalezza un brano, la title-track, cantato da Jim James (My Mornig Jacket, Monsters Of Folk), e neppure infastidiscono certe incursioni più goliardiche in territori indie rock un po’ svagati e leggerini: “Later” o “Mirror, Mirror” non stonerebbero in un disco, per dire, dei The Spinto Band, mentre i tocchi black di “Where’d All The Time Go?” o “Unbearable Why” rimandano alla rilassatezza estiva sfumata di Motown dei Floating Action, con cui peraltro i Dr. Dog l’anno scorso hanno piacevolmente splittato (“The Breeze/Don’t Stop Loving Me Now”). E poi c’è l’America classica delle steel guitar e dei piano honky-tonk (“Shadow People”, “Station”, “I Only Wear Blue”), per non perdere di vista i numi tutelari, da Neil Young in giù.

E se è vero, ritornando alla genesi di “Jackie Wants A Black Eye”, che «nella società contemporanea una vita umana ha necessariamente uno o più periodi di crisi, di intensa rimessa in questione personale, e quindi è normale e giusto avere accesso, nel centro di una grande città, a quantomeno un locale aperto tutta la notte» (M. Houellebecq), è vero anche che in pochi, poi, riescono a uscire da quel locale con la crisi alle spalle. I Dr. Dog sì. E forse anche chi li ascolta.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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salvatore alle 14:25 del 18 aprile 2010 ha scritto:

Al primo ascolto molto bello. Vediamo se regge...

Where'd All The Time Go?, sublime: tra Motown, My Bloody Valentine (!!!) e Beatles. Forse la loro canzone più bella, in assoluto.

fabfabfab (ha votato 5 questo disco) alle 21:45 del primo giugno 2010 ha scritto:

Delusione dell'anno. Piatto, adagiato sulle stesse sonorità pop-soul dall'inizio alla fine. "Fate" era tutt'altra cosa.