My Brightest Diamond
A Thousand Shark's Teeth
Diciamo la verità, la si aspettava un po’ tutti con i bastoni in mano, questa povera ragazza. Figlia di musicisti giramondo, diplomata in canto classico alla Texas Woman's University, un disco autoprodotto a Mosca, collaborazioni con la compositrice Australiana Padma Newsome, tour in giro per il mondo accanto, tra gli altri, a The Decemberists e capo-cheerleader negli “Illinoisemakers” di Sufjan Stevens. Un curriculum che, se non proprio antipatia, suscita quantomeno invidiosa ammirazione.
Come se non bastasse, avevamo scoperto che il primo disco solista di Shara Worden (“Bring Me The Workhorse” – 2006), creato praticamente nei ritagli di tempo concessi dalla lenta gestazione di “A Thousand Shark’s teeth”, era un buon album rock, a metà strada tra i Portishead e la P. J. Harvey di qualche anno fa.
“A Thousand Shark’s teeth” parte dalle intuizioni di “Bring Me the Workhorse”, ma la direzione è completamente diversa. L’impressione è che il vero disco d’esordio sia questo, che sia questo il luogo dove confluiscono tutte le esperienze della trentaquattrenne di New York. Anche la ricchezza della strumentazione (fiati e soprattutto archi come se piovesse, oltre a chitarre, basso, batteria, marimba, xilofono, arpa ..) ed il dispiego di mezzi (più di quaranta le persone impegnate, tra musicisti, produttori e ingegneri del suono) rivelano l’importanza data a quest’opera dall’ autrice stessa.
“Inside a boy” è una bella apertura, resa potente da una voce che impareremo ad amare.
Anche troppo potente se, con un po’ di sforzo, il cantato finale può far venire in mente sonorità classic-metal. Molto meglio “Ice & the storm”, cassa in quattro, pulsazioni ritmiche e aperture voce/archi da brivido. Si fanno apprezzare anche gli approcci elettro-isolazionisti di “Like a sieve” e soprattutto di “Apples”, nei quali Shara dimostra di aver assimilato bene la lezione di Bjork. Un po’ vezzosa quando gioca a fare Edith Piaf (“If I were queen”), la polistrumentista americana si rivela nobile quando si tuffa nel dramma teatrale: “Black & Costaud”, forse il pezzo migliore del disco, sembra nato dalla penna di Anthony & The Johnsons per la voce di Diamanda Galas. Verso la fine dell’album torna lo spettro dei Portishead (“To pluto’s moon”, “Bass Player”), ma è la sensazione bianco ghiaccio dell’intera opera che spinge l’ascoltatore a non distogliere l’attenzione, a cercare di cogliere i dettagli (l’intro delizioso di “Goodbye forever”, il crescendo sospeso di ”The diamond”) di una prova di forza la cui vittoria ci viene gridata in faccia da una delle voci più affascinanti di tutto il panorama musicale odierno.
Forza, mettiamo via i bastoni. Ci vuole ben altro per scalfire un diamante così puro.
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