R Recensione

5,5/10

Titus Andronicus

The Most Lamentable Tragedy

Non poteva che essere il referto di un esaurimento nervoso patito da una personalità coscientemente bipolare, “The Most Lamentable Tragedy”, 3 Lp, 29 canzoni, 93 minuti, Patrick Stickles quasi sempre urlante. L’esito poteva essere un mastodonte memorabile o un clamoroso flop. Più il secondo che il primo, per una band che d’altronde ha sempre guardato con sospetto le mezze misure, a suo stesso rischio.

Se i Titus Andronicus hanno sempre giocato con la tradizione americana, per riplasmarla addosso a una generazione godereccia e assieme nichilista, rimbalzante in un vuoto pneumatico che è arduo riempire, c’è da dire che lo hanno sempre fatto con intelligenza, degradando in un mostro anfibio spaesato e sbronzo folk e grunge assieme (“The Airing of Grievances”), creando parallelismi epici con la storia americana (“The Monitor”) o tuffandosi negli States consumistici fino ad affogarci al limite di una gloriosa depressione (“Local Business”). Qua si impegnano a costruire una rock opera ambiziosa, attorno ai temi della schizofrenia e della dipendenza dagli psicofarmaci, con testi (al solito) curati e colti, commentati in un'autoesegesi minuziosa da Stickles stesso (qua).

The Most Lamentable Tragedy”, in compenso, suona come il disco più vitale e casinista della band, con il sostrato folk-rock ormai saldamente sostituito da una vena rock’n’roll (se non hard rock, a tratti, vd. “(S)HE SAID / (S)HE SAID”), se possibile, ancora più passatista della precedente. E però qua il gioco citazionista funziona meno, anche perché è portato allo stremo, sicché i numeri da adult rock ‘80, gli springsteenismi spinti, gli storpiamenti ubriachi di un arena rock bombastico, per parlare di ragazzi solitari e disagi conclamati nell’era del capitalismo postumo a se stesso, suonano devitalizzati. La costante glassatura heartland, insomma, tra roots alla John Mellencamp e piani che sostengono come da saloon le chitarre sempre storpiate, sembra anestetizzare tutto, anche a causa di uno Stickles più nevrotico che mai e poco incisivo a livello vocale, per non parlare della produzione volutamente sempre sopra le righe.

Tra i 29 pezzi molti sono veloci divertissement, riempitivi "strutturali", ponti al pezzo successivo, schegge punk dettate da una furia egoriferita (“[intermission]”, invece, è 1’18’’ di silenzio). Dei 16-17 brani che costituiscono il cuore dell’album, spiccano quelli concentrati nella parte centrale, più diretti e taglienti (“Dimed Out”, “Mr. E. Mann”, “Fired Up”: i tre momenti da portare a casa, con il violino di Owen Pallett a illuminare). Due cover: di Daniel Johnston (“I Lost My Mind”, la seconda delle due in scaletta) e Pogues (era ora che citassero anche loro oltre che se stessi: “A Pair of Brown Eyes”). A Johnston rimanda anche "Stable Boy", nel finale, sei minuti di storta ballata al chord organ registrata su cassetta che resuscita i Titus migliori.

Molti titoli rimandano a brani già pubblicati nei dischi precedenti, per un’impressione di cane che si morde la coda davvero ineludibile (a dire il vero “More Perfect Union”, che cita il brano da “The Monitor”, funziona, anche se 3-4 minuti, dei quasi 10, potevano benissimo sparire). La seconda metà, poi, con pezzi situazionisti e tutti esauriti nel loro aspetto "teatrale" e narrativo, gira a vuoto; fanno eccezione “Fatal Flaw” e “Come on, Siobhan”, che però finiscono per sovrapporsi perfettamente ai pezzi migliori del primo Lp, per un effetto di loop che in un lavoro così lungo rischia davvero di far impazzire.

Non c’è via di uscita, e questo i Titus Andronicus ce l’avevano detto fin dall’inizio. Passi il mimetismo, ma ora loro stessi, lamentandosi per 93 minuti con la stessa lingua del padrone, sembrano godere un po' troppo di non darne, nemmeno fantasticarne, neppure un barlume.

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