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R Recensione

5,5/10

Paul Banks

Banks

Il fatto che la cosa migliore del secondo disco solista di Paul Banks sia la copertina (figa senza se e senza ma) non deve comunque far desistere dal suo ascolto, dal momento che vi si può ancora trovare qualche barlume del vecchio talento che consentì a questo biondino inglese di nascita e ai suoi compagni di band di pubblicare, dieci anni fa, uno degli album più spettacolari della scorsa decade. Pochissimi barlumi, eh. Non crediate.

 

Rispetto all'altro solista, divulgato sotto il nome Julian Plenti, Banks decide di cambiare moniker, mettendosi a nudo. Un contrario movimento, però, accompagna la sostanza musicale: “Banks” è un lavoro pieno, a tratti enfatico, costruito in verticale su arrangiamenti molto carichi, quasi mai davvero aderenti al timbro esistenzialista di Banks. Che non si fa un favore, coprendosi e marcando gli archi, potenziando l’apparato orchestrale e dopando la batteria. Si sente il desiderio di dimostrarsi più arty rispetto alla band madre, infilando due pezzi strumentali e inserendo sgusciate inattese in mezzo ai brani, in bilico tra indie-rock da galleria d’arte e riffettoni da club. Da cui il vero peccato del disco: la posa supera la sostanza.

 

Meglio, tutto sommato, dove si riprende la lezione degli Interpol in versione 'lavoro sporco' (quelli degli ultimi due dischi): “Over the Shoulder”, “No Mistakes” e “Summertime is Coming” funzionano, anche melodicamente, e non subiscono l’estro bankiano, venendone anzi impreziosite (vedi la coda acustica dell’ultimo pezzo). Altrove l’impianto si fa troppo barocco e privo di una scrittura che lo sorregga (“Paid for That”, “I’ll Sue You”), altrove domina la confusione (“Arise, Awake”). Apici il tocco new wave di “The Base” e la leggerezza strumentale di “Lisbon”, che porta l’odore del mare negli spruzzi arpeggiati di chitarra e il vento nelle vibrazioni negli archi e nelle lontananze del glockenspiel. Peccato (anche qui) per un paio di veloci invasamenti à la Muse, fuori luogo (letteralmente: che ci azzecca Lisbona?).

 

A uscirne è un disco tutt’altro che memorabile, buono per qualche ascolto e poi via, a livelli un po’ più bassi rispetto a “Julian Plenti Is Skyscraper”. Banche in crisi, insomma. Quelle vere vadano in malora. Speriamo che almeno Paul si riprenda.

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Voto degli utenti: 6,2/10 in media su 3 voti.
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Dengler 5,5/10

C Commenti

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nebraska82 (ha votato 6 questo disco) alle 13:22 del 22 ottobre 2012 ha scritto:

un po' stagionato il nostro dandy newyorchese, ma qualche occasionale zampata di classe la tira fuori. meglio dell'ultimo interpol comunque.