Ariel Pink's Haunted Graffiti
Mature Themes
A furia di dire che si è ripulito sembra che sia uscito dal SerT, ma in effetti è difficile definire altrimenti la svolta hi-fi che dallo scorso “Before Today” ha segnato il percorso musicale di Ariel Pink. Tanto più il discorso vale per un disco che, fin dal titolo, si propone come traguardo adulto (?) di una traiettoria passata per pop pasticciato, melodie perfette in qualità bassissime, deformazioni easy-listening e kitchume vario in camuffamenti cheap da cameretta. Ora Ariel Pink è maturo. Ma, per fortuna, è sempre Ariel Pink.
E quindi si prende tutta la libertà di andare in radio ma di suonare eccentrico, di cercare la perfezione pop ma di non rinunciare alla bizzarria, di limare con una produzione stilosa ma senza precludersi la capriola. Di uscire per la 4AD ma di permettersi cose spastiche che chiunque altro dovrebbe tenere nei cassetti a vita. Come un pezzo (lo-fi!) sulla schnitzel (la cotoletta austriaca), con inserti parlati e una coda ipnotica fino al fastidio (“Schnitzel Boogie”), o l'assurda Zappa-gets-synth-punk "Is This the Best Spot?". Ma Mr. Rosenberg ha tenuto nei cassetti fin troppa roba, before today.
Nella solita messe di citazioni mainstream alternate ad ammicchi ultra-underground, c’è spazio per richiami agli Sparks tonyviscontiani tra ’70 e ’80 (“Kinski Assassin”), per dei Bee Gees remixati in una salsa glo-fi glassata di exotica (“Pink Slime”), per una cover di un favoloso pezzo soft-soul di Joe & Donnie Emerson targato 1979 (“Baby”), e persino per un incrocio tra Byrds e Real Estate (“Only in my Dreams”) appiccicoso come poche altre cose di questo 2012. C’è spazio, ancora, per Todd Rundgren (“Mature Themes”) e per tutti quei lustrini di glam addomesticato ‘70/’80 da radio fm che hanno sempre costituito per Pink il serbatoio principale.
In compenso è la zona influenzata dall’amato umore goth-wave quella più fertile del disco. La zona scura, insomma. Dove i synth diventano sottilmente paranoici e pastosi, buie le voci (lavoratissime, sempre stravolte, per un’alienante impressione che a cantare, nel disco, siano dieci voci diverse), sopra intarsi strumentali solo in apparenza semplici. Piccoli capolavori le serpentine retro-licious di “Driftwood” (quel basso!) e “Symphony of the Nymph”, synth-pop cosmico costruito per sporchi lacerti appiccicati con lo scotch e ottovolanti lo/hi-fi che fanno dialogare il vecchio e il nuovo Pink, in una nenia nonsense esaltante (rima geniale «doctor Mario» «down in the barrio» «my name is Ariel»). Poco sotto il dark impasticcato di “Early Birds of Babylon” e l’ambient-pop (!?) di “Nostradamus & Me”, che svapora verso “Baby” in una scia di elegantissima fricchettagine.
La verità è che di maturo non c’è un bel niente, qua, se non la scrittura pop, finalmente affinata malgrado irrinunciabili teppismi, deviazioni e sabotaggi. Calate le luci sulla scena hypnagogic pop che a lui ha guardato come a un maestro, Ariel Pink non solo si conferma tale, ma mostra di trarre sempre più linfa (e con risultati sempre più luminosi) dagli archivi infiniti della sua memoria.
Questo è Pink: uno che quanto più sembra darsi al revival tanto più fa scuola.
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