R Recensione

7,5/10

Emerson, Lake & Palmer

Trilogy

Il terzo disco realizzato in studio da parte di quello che è da considerarsi il trio progressivo britannico per eccellenza è per certo il lavoro più equilibrato, se non semplicemente il migliore in assoluto. Se la gioca senz’ altro con album d’esordio il quale ha dalla sua la presenza di componenti crimsoniane più forti ed estese grazie all’ ancor freschissima esperienza, e quindi spinta, del bassista e cantante Greg Lake proveniente da quel gruppo.

Il lavoro si articola in sette episodi, ben diversificati visto che sono presenti due suite, una ballata semiacustica, uno scanzonato episodio country/honky tonk, una porzione di musica per balletto del compositore classico leggero Aaron Copland opportunamente riadattata, un rock blues reso alla maniera progressiva ed infine addirittura un bolero, imbastardito a marcetta passandone la cadenza dai canonici tre ai quattro quarti.

Le suite occupano complessivamente quasi la metà dell’album, piazzate al tempo ad aprire le facciate dell’originale ellepì. La più riuscita di esse è quella d’apertura intitolata “The Endless Enigma”. E’ una composizione tripartita, con l’episodio centrale costituito da un’eccellente fuga al pianoforte in solitaria di Emerson, del quale si può ammirare compiutamente la preparazione e sensibilità di tocco da concertista e più in particolare la caratteristica forza e destrezza della mano sinistra sulla tastiera, capace di staccare note basse particolarmente potenti, risonanti e risolute.

La suite gode di una suggestiva intro nella quale un tremolante e bucolico moog va a colloquiare con delle evocative percussioni di Palmer, duetto ben presto e più volte tranciato da dissonanti e folgoranti corse a tutto volume sulla tastiera del pianoforte nello stile di Thelonius Monk. Il primo momento magico del pezzo si realizza quando le percussioni si assestano a ritmo e l’organo Hammond, con un suono mirabile e percussivo che pare il vero respiro di una bestia, si contorce in una scala ascendente trascinandosi dietro il basso e la batteria per una sarabanda virtuosa e di plastica efficacia (per chi apprezza, certo… se poi uno si sdilinquisce per il brit pop o per il rap questa è tutta fuffa: de gustibus). L’exploit strumentale si arresta poi per introdurre la porzione cantata di Lake al solito avulsa, in quanto a stile ed atmosfera, da quanto è successo fin lì, ma questa è la caratteristica delle migliori pagine di ELP: pezzi di purissima ispirazione Cremisi innestati nell’esuberanza e tonitruanza elettronico/classico/jazzistica dell’ispirazione Emersoniana.

Il bassista declama dunque i suoi versi con la rara pastosità e sonorità del suo vocione e, devo dire a questo punto, non ho mai digerito l’esteso astio associato alla figura di questo musicista. E’ pur vero che l’uomo in questione, borioso e saccente da subito, a trent’anni era già obeso, senza voce e senza più nulla da dire, ma la sua giovinezza artistica ha le stimmate del fuoriclasse… “In the Court of the Crimson King” è un riconosciuto capolavoro non solo per la chitarra e le idee di Fripp ma anche per il mellotron, i fiati e le molte idee di McDonald, la batteria estemporanea di Giles e, dulcis in fundo, il basso la voce e le solide idee compositive di Lake. Qui in “The Endless Enigma”, quando Greg prende stentoreo a declamare a tutto diaframma il ritornello (“Please, please, please open their eyes…”) sostenuto da una poderosa fanfara liturgica d’organo, ogni buon ammiratore dei King Crimson dovrebbe sentire il cuore scaldarsi e magari rimpiangere che questi exploit canori non siano avvenuti piuttosto sopra gli obliqui tappeti di chitarra e mellotron di Fripp e soci.

La terza parte della suite riprende sostanzialmente i temi della prima ma con variazioni, nella tipica struttura classica della sonata, con un’ultima porzione cantata e il finale in gloria con gli ultimi, spettacolari staccati strumentali.

L’altra suite si incarica di dare pure il titolo all’album e ha una struttura meno complessa ed efficace, le melodie del cantato sono più dolci ma meno ispirate. Il batterista si fa in quattro, ancora parecchio ispirato dallo stile di Mike Giles (un modo di suonare lo strumento che Palmer ha completamente perso colla maturità: oggi, e da molto tempo a questa parte, il suo drumming è assai più rigido e ordinario di questo suo giovanile, derivativo ma estroso e descrittivo).

La (notevole) ballata di Lake si intitola “From The Beginning” e s’ispira in qualche modo alla fortunata “Lucky Man” che tanto aveva contribuito ad estendere l’accessibilità dell’album d’esordio di tre anni prima. Similmente a quest’ultima, vi è infatti un pregnante assolo di sintetizzatore in chiusura. Il frontman, anch’ esso da considerare uno dei tanti chitarristi prestati al basso della storia del rock, dimostra nell’ occasione tutta la sua confidenza colla sei corde, addirittura riservandosi un piccolo saggio solista in apertura ed un breve, semplice ma competente assolo centrale (con l’elettrica). Di spiccata qualità melodica pure il suo lavoro al basso, che si inerpica a ‘la McCartney verso le note più alte, senza paura, descrivendo efficaci contro melodie e contribuendo a rendere quest’intermezzo semiacustico un vero gioiellino del repertorio del gruppo, stranamente e storicamente assai trascurato nelle esibizioni dal vivo.

Decisamente non trascurato nei concerti è invece il cospicuo riarrangiamento della “Hoedown” di Aaron Copland, destinata da qui in poi ad aprire parecchie serate del gruppo in virtù della sua agganciante spernacchiata di synth iniziale e poi dell’andamento enfatico, quasi a giga scozzese del tema, colla ritmica che si diverte in tutta una serie di sincopi e l’organo di Emerson a sproloquiare rapido e sapido.

L’ambizioso bolero concepito dal tastierista di intitola “Abaddon’s Bolero” e chiude i giochi dell’album coi suoi lunghi otto minuti, nei quali l’esteso tema di base viene percorso otto volte una per minuto, partendo in maniera scarna, a marcetta col solo rullante e il fischio flautato dell’ Hammond a descrivere la melodia d’impianto, via via arricchendosi di controcanti e contrappunti al sintetizzatore, al pianoforte e all’organo, fino ad un orgiastico finale ridondante di suoni e partiture.

I riempitivi del disco infine sono un paio: la scolastica e insulsa “The Sceriff” ravvivata da un attorcigliato intro di batteria di Palmer (che sbaglia pure a un certo momento ed esclama “merda!”, lievemente ripreso dai microfoni intorno al suo kit!) e da un finale barrelhouse di Emerson al pianoforte scordato modello Saloon. Qui Lake non ha proprio la voce adatta per intervenire in maniera plausibile, essendo così privo di ironia e leggerezza il suo approccio, ma tant’è. L’altra cosa soprassedibile è l’esperimento rock blues “Living Sin”, con un nodoso riff alla maniera di Humble Pie o Mountain, i registri bassi dell’ Hammond a sostituire i bicordi di una chitarra elettrica.

Di lì a breve il trio perderà decisamente la bussola dopo un ultimo lavoro ancora discretamente interessante (“Brain Salad Surgery”), sopraffatto da magniloquenza, gigantismo, smargiassa supponenza, inaridimento dell’ispirazione, pigrizia e mancanza di nuovi stimoli. Qui però ancora i musicisti appaiono giovani, coesi e concentrati, lontani da eccessive autoindulgenze perciò il disco funziona ancor oggi senza creare sensazioni stucchevoli ed è un piacere ripassarselo ogni tanto.   

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 19 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
B-B-B 9,5/10
krikka 5/10
loson 7,5/10
Robio 7/10
brogior 10/10
luca.r 5,5/10
Dengler 6,5/10
inter1964 7,5/10

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Paolo Nuzzi (ha votato 7 questo disco) alle 9:19 del 15 giugno 2015 ha scritto:

Bene, ottimo, buonissimo disco. Se non fosse per i riempitivi da te citati (The Sheriff su tutte), sarebbe un mezzo capolavoro, quasi quanto l'esordio, anche se "Hoedown" non sono mai riuscito a digerirla. "From the Beginning" è davvero una perla, io adoro Greg Lake, ha una voce splendida ed un gusto negli arrangiamenti e nelle soluzioni melodiche invero sorprendenti. Concordo anche sul drumming di Carl Palmer, che, dopo questo disco, smetterà di essere così interessante. Complimenti per la recensione