R Recensione

8/10

Kings X

XV

Il grande trio texano, sul mercato discografico da vent’anni con discreti riscontri commerciali ma soprattutto con generali e smisurati attestati di stima e ammirazione da parte di colleghi musicisti e addetti ai lavori, si conferma con questo quindicesimo album (live e best of compresi) sui livelli eccellenti di songwriting, personalità, esecuzione e classe che hanno contraddistinto larga parte della sua produzione.

Chiunque mastichi musica, ma in particolare colui che abbia un‘idea abbastanza precisa di come si maneggia uno strumento in ambito rock, non dovrebbe esimersi dal raccogliere la proposta di questi tre bravi ed intelligenti signori, dal subire l’influenza e la forza del loro suono molto ma molto caratteristico, frutto di un blend pressoché unico di grunge+beatles+blues+pop+soul+funk+metal, con sensibili divagazioni psichedeliche ed occasionali striature progressive.

Melodicamente talvolta irresistibili, tecnicamente sempre eccelse, timbricamente strapotenti e intense, le loro composizioni sono da me accolte come il fiore all’occhiello della musica contemporanea (di mio interesse). Ogni appassionato di rock ha i suoi gruppi “di culto”, ebbene nel mio caso essi costituiscono la massima religione alla quale inchinarmi, l’apoteosi del comporre e suonare bene e di cuore, del fare le cose con creatività, peculiarità, fascino, liricità, semplicità, umiltà.

Il gruppo da un paio di album a questa parte, in coincidenza col passaggio di casa discografica dalla Metal Blade alla Inside Out, è ritornato ad un mix più equilibrato fra brani decisi e pesanti (sempre cantati dal bassista mulatto Doug Pinnick, dotato di un timbro allo stesso tempo soul e drammatico, molto efficace), ed episodi ariosi e ipermelodici (in genere cantati dal chitarrista Ty Tabor, col suo stile prettamente Lennoniano), mix che aveva caratterizzato anche la prima parte di carriera sotto l’egida della Atlantic. Il periodo Metal Blade (dal 1998 al 2004) aveva visto invece un deciso arroccamento verso le sonorità più toste, con Pinnick quasi in esclusiva nel ruolo di carismatico cantante solista.

Per i miei gusti personali, che cercano sempre il lato melodico (sebbene “with balls”, diciamo così), questa versione dei King’s X con due voci soliste alternate ed un congruo numero di robuste ed armoniche ballate disseminate in scaletta è di gran lunga la mia preferita. In questo lavoro si susseguono perciò episodi in cui il suono grunge/nu metal della mirabolante chitarra con accordatura ribassata di Tabor (uno dei chitarristi ritmici più devastanti della storia del rock, con un suono che spacca, sempre) fa il bello e il cattivo tempo, con altri episodi più contemplativi, psichedelici, malinconici, nei quali le pregnanti architetture delle chitarre di Tabor (uno degli arpeggiatori più profondi e creativi della storia del rock, con un suono perfetto, lussureggiante e preciso), dettano il percorso alla sua stessa voce, caratteristicamente beatlesiana, spesso e volentieri sostenuta da magnifici cori, altro fiore all’occhiello del creativo trio ed ai quali contribuisce anche il batterista Jerry Gaskill.

Quest’ultimo non manca di dare cospicuo valore aggiunto alla formazione, essendo dotato di uno stile essenziale, potente e di grande tiro, corroborato da suoni più che perfetti. In uno dei brani (“Julie”, una raffinata ballata semiacustica che ricorda in qualche modo la Lennoniana “Norwegian Wood”) si prende pure il ruolo di voce solista.

L’inarrivabile classe che sorregge l’ispirazione e l’interpretazione della loro musica può essere gustata ad esempio in “Blue”, con la sua melodia obliqua molto David Bowie innestata sui soliti chitarroni di Tabor, in pregnante risonanza nella loro distorsione calda e controllata. Oppure nel ciclico ed aperto arpeggio che governa “Repeating”, terza traccia del disco e la prima cantata da Ty. O ancora nella mutevole “Rocket Ship”, che gode di un preambolo progressive metal alla Rush sul quale piomba una strofa nu-metal sincopata e assassina, che però si apre ben presto in un refrain quasi pop, mentre la voce africana di Pinnick, calda e ruvida, stabilisce l’unicità e la peculiarità del tutto iniettando anima e cuore a profusione.

Altra chicca di alta scuola è “I Just Want”, interpretata da Tabor nel suo consueto stile malinconico e lirico, per poi esplodere nel mezzo in un assolo lisergico ed ispirato. Le ultime tracce del dischetto riservano acceso e crudo rock in trio, ma l’ultimissimo episodio è di nuovo una grande variazione sul tema. “No Lie” è in effetti un blues finto sgangherato, con il bassista che si esibisce in un canto ubriaco e studiatamente scomposto, mentre le chitarre vagolano imprevedibili e massimamente psichedeliche, uscendo di tonalità e trasgredendo l’architettura blues: una situazione che sarebbe piaciuta di sicuro al grande Zappa, mi viene da pensare.

King’s X fra i miei dieci gruppi favoriti di ogni tempo. Tabor fra i miei miti della chitarra rock. È bello sentirselo addosso, ed esserne sicuri. Fate voi.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 3 voti.
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krikka 5/10
REBBY 5/10

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