R Recensione

7/10

Rush

Snakes & Arrows

Il grande e seminale trio di Toronto ha ripreso con vigoria la sua carriera, lunghissima e proverbialmente stimabile, dopo le sventure occorse al batterista Neil Peart, (perdita in successione di figlia e moglie, la prima in un incidente stradale e la seconda per una malattia terminale).

Peart ha inteso di curare queste sue ferite inforcando la Harley Davidson e girando America settentrionale e centrale per… un paio d’anni, per poi trasferirsi stabilmente in California (il denaro non riesce a tener lontane le sfortune della vita, ma in qualche modo può rendersi utile per accettarle…). Il gruppo ha aspettato che la voglia e la concentrazione del musicista (e del liricista, è lui che scrive tutti i testi) tornassero a scorrere nel suo animo, la produzione discografica è quindi ricominciata nel 2002 e questo dell’anno scorso è l’ultimo disco in studio sinora prodotto dalla formazione.

I Rush possono non interessare, in particolare a causa dell’impegnativa voce del bassista Geddy Lee, tanto intonata quanto tendenzialmente stridula, oppure per quell’aria iperrazionale ed ipertecnologica del loro suono e del loro stile. Nessuno d’altro canto può contestare il contributo di personalità e coesione, creatività e coerenza, impegno e umiltà, brillantezza e tecnica, novità ed evoluzione che hanno dato alla musica rock.

Partiti a metà degli anni settanta sulle solite coordinate zeppeliniane, si sono poi velocemente evoluti/involuti verso un ridondante progressive (e questo proprio negli anni del riflusso punk e new wave) per poi finalmente approdare ad una fase ottantiana di perfetto equilibrio fra melodia e avanguardia, cerebralità e accessibilità, potenza e leggerezza. L’avvento degli anni novanta ha visto però un sensibile impoverimento della loro vena compositiva, con opere più che dignitose ma solo sporadicamente illuminate da qualcosa di eccelso.

Anche l’attuale decennio non riserva grosse sorprese positive, o negative, per i Rush. Neil, Geddy ed il loro chitarrista Alex Lifeson continuano ad esplorare la loro immensa coesione musicale, la padronanza assoluta del ritmo in particolar modo, ma il tutto suona da tempo quasi come un esercizio di stile, per chi conosce bene il loro repertorio. Questo disco, se fosse il loro primo o secondo, richiamerebbe aggettivi superlativi a iosa; invece è il diciottesimo ed a quasi ogni sua canzone può essere trovato un corrispettivo passato nell’enorme discografia che l’ha preceduto.

Come tutti i gruppi ipertecnici, i Rush colpiscono ed entusiasmano la prima mezz’ora, poi vengono un po’ a noia: così indaffarate e impegnative le loro partiture, così tesa e chioccia la modulazione vocale. Negli anni ottanta avevano trovato soluzione a questo, con un respiro più lineare e ruffiano delle melodie, l’uso intelligente delle tastiere e dei suoni transistorizzati (quest’ultimo un vero miracolo controcorrente, giacché il rock migliore è sempre stato fatto coincidere con chitarre dominanti e valvole fumanti), la ricerca di liricità e la grande compattezza degli assoli strumentali.

Alla fine, il brano che si eleva maggiormente in scaletta finisce per essere “Hope”, un breve e delizioso strumentale che vede il solo Lifeson alla 12 corde acustica, a quanto dichiarato lo strumento principale usato in fase di composizione. Difficile intuirlo, dato il gran numero di riffoni di Les Paul, taglienti e saturi, che solcano le composizioni.

Massimo rispetto per i Rush, tre musicisti bravissimi e veramente particolari (anche nel loro mix culturale: Gary Lee Weinrib, in arte Geddy Lee, ha genitori ebreo-polacchi rifugiatisi in Canada per sfuggire alla Gestapo, mentre  Alexandar Zivijinovic, in arte Alex Lifeson, è figlio di immigrati serbi), ma da molto tempo a questa parte li sento viaggiare abbastanza con il pilota automatico. Come già spiegato, ed in controtendenza con l’opinione comune dei loro fans, decisamente propensa a celebrare i loro primi dischi degli anni settanta, amo invece la  loro fase mediana di carriera, a partire da “Moving Pictures” (1981) fino ad “Hold Your Fire” (1987). A confronto, solo ampia sufficienza per questa loro ultima fatica.

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Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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SanteCaserio (ha votato 7 questo disco) alle 10:36 del 4 novembre 2008 ha scritto:

Senza la recensione

non mi sarebbe mai capitato di ascoltare questo disco.

Visto che ne è valsa la pena mi tocca ringraziarti .

Mi ritrovo pienamente d'accordo su tutto, compreso un lieve fastidio per la voce e la noia che accompagna molti gruppi "ipertecnici"

Visto che li conosci sicuramente più di me, quale altro disco mi consiglieresti tra Moving e Hold?

PierPaolo, autore, alle 10:48 del 4 novembre 2008 ha scritto:

Sono tutti molto belli, Sante

In particolare la triade "Grace Under Pressure" (1983)+ "Power Windows" (1985)+ "Hold Your Fire" (1987). Ho una leggera preferenza per l'album del 1985, alla fin fine il mio preferito dei Rush. Il songwriting è al massimo. "Grace" è leggermente più oscuro.

TheRock alle 9:01 del 23 febbraio 2012 ha scritto:

i Rush sono una delle più importanti rock band di tutti i tempi. Neil Peart è il mio batterista preferito e lo considero in assoluto il migliore.

AlexMai (ha votato 8 questo disco) alle 14:53 del 22 settembre 2015 ha scritto:

La più grande cult band del pianeta... il mio gruppo preferito in assoluto. Da ascoltare e riascoltare.

Quando avevano meno di 25 anni suonavano come il 99% degli abitanti del pianeta Terra non suona neanche a 60...

Paolo Nuzzi alle 15:24 del 22 settembre 2015 ha scritto:

Questo è verissimo, sono Musicisti con i controcazzi. Ogni volta che ascolto composizioni come XYZ o La Villa Strangiato resto ammutolito di fronte a cotanta perizia tecnica, freschezza compositiva e precisione d'esecuzione. Detto questo, non mi fanno impazzire in senso assoluto.