Rush
Snakes & Arrows
Il grande e seminale trio di Toronto ha ripreso con vigoria la sua carriera, lunghissima e proverbialmente stimabile, dopo le sventure occorse al batterista Neil Peart, (perdita in successione di figlia e moglie, la prima in un incidente stradale e la seconda per una malattia terminale).
Peart ha inteso di curare queste sue ferite inforcando la Harley Davidson e girando America settentrionale e centrale per… un paio d’anni, per poi trasferirsi stabilmente in California (il denaro non riesce a tener lontane le sfortune della vita, ma in qualche modo può rendersi utile per accettarle…). Il gruppo ha aspettato che la voglia e la concentrazione del musicista (e del liricista, è lui che scrive tutti i testi) tornassero a scorrere nel suo animo, la produzione discografica è quindi ricominciata nel 2002 e questo dell’anno scorso è l’ultimo disco in studio sinora prodotto dalla formazione.
I Rush possono non interessare, in particolare a causa dell’impegnativa voce del bassista Geddy Lee, tanto intonata quanto tendenzialmente stridula, oppure per quell’aria iperrazionale ed ipertecnologica del loro suono e del loro stile. Nessuno d’altro canto può contestare il contributo di personalità e coesione, creatività e coerenza, impegno e umiltà, brillantezza e tecnica, novità ed evoluzione che hanno dato alla musica rock.
Partiti a metà degli anni settanta sulle solite coordinate zeppeliniane, si sono poi velocemente evoluti/involuti verso un ridondante progressive (e questo proprio negli anni del riflusso punk e new wave) per poi finalmente approdare ad una fase ottantiana di perfetto equilibrio fra melodia e avanguardia, cerebralità e accessibilità, potenza e leggerezza. L’avvento degli anni novanta ha visto però un sensibile impoverimento della loro vena compositiva, con opere più che dignitose ma solo sporadicamente illuminate da qualcosa di eccelso.
Anche l’attuale decennio non riserva grosse sorprese positive, o negative, per i Rush. Neil, Geddy ed il loro chitarrista Alex Lifeson continuano ad esplorare la loro immensa coesione musicale, la padronanza assoluta del ritmo in particolar modo, ma il tutto suona da tempo quasi come un esercizio di stile, per chi conosce bene il loro repertorio. Questo disco, se fosse il loro primo o secondo, richiamerebbe aggettivi superlativi a iosa; invece è il diciottesimo ed a quasi ogni sua canzone può essere trovato un corrispettivo passato nell’enorme discografia che l’ha preceduto.
Come tutti i gruppi ipertecnici, i Rush colpiscono ed entusiasmano la prima mezz’ora, poi vengono un po’ a noia: così indaffarate e impegnative le loro partiture, così tesa e chioccia la modulazione vocale. Negli anni ottanta avevano trovato soluzione a questo, con un respiro più lineare e ruffiano delle melodie, l’uso intelligente delle tastiere e dei suoni transistorizzati (quest’ultimo un vero miracolo controcorrente, giacché il rock migliore è sempre stato fatto coincidere con chitarre dominanti e valvole fumanti), la ricerca di liricità e la grande compattezza degli assoli strumentali.
Alla fine, il brano che si eleva maggiormente in scaletta finisce per essere “Hope”, un breve e delizioso strumentale che vede il solo Lifeson alla 12 corde acustica, a quanto dichiarato lo strumento principale usato in fase di composizione. Difficile intuirlo, dato il gran numero di riffoni di Les Paul, taglienti e saturi, che solcano le composizioni.
Massimo rispetto per i Rush, tre musicisti bravissimi e veramente particolari (anche nel loro mix culturale: Gary Lee Weinrib, in arte Geddy Lee, ha genitori ebreo-polacchi rifugiatisi in Canada per sfuggire alla Gestapo, mentre Alexandar Zivijinovic, in arte Alex Lifeson, è figlio di immigrati serbi), ma da molto tempo a questa parte li sento viaggiare abbastanza con il pilota automatico. Come già spiegato, ed in controtendenza con l’opinione comune dei loro fans, decisamente propensa a celebrare i loro primi dischi degli anni settanta, amo invece la loro fase mediana di carriera, a partire da “Moving Pictures” (1981) fino ad “Hold Your Fire” (1987). A confronto, solo ampia sufficienza per questa loro ultima fatica.
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