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R Recensione

8/10

Tool

10,000 Days

Un'uscita discografica dei Tool è sempre, nel bene o nel male (nel male mai, a dir la verità) un evento mediatico. Perchè i Tool non sono un gruppo qualsiasi. Ascoltando i loro dischi, assistendo ai loro concerti, vedendo i loro video, si può facilmente intuire che loro vivono musica. E non è una passione temporanea, una vena che s'infiamma ogni tanto, e per la maggior parte del suo tempo rimane in letargo, ad aspettare chissà cosa. Il loro è uno sposalizio, un tutt’uno col mondo discografico, una vera e propria dedizione al tempio sacro della musica, che viene applicata scrupolosamente attraverso testi colti e potenti e prodigi strumentali (rullate dispari, quanto cambi di tempo, controtempo e melodia).

Cinque anni dopo il capolavoro indiscusso “Lateralus”, arriva nei negozi “10,000 Days”, la nuova fatica della band, capitanata da Maynard James Keenan. Undici tracce di progressive metal, dentro le quali si fondono elementi hardcore, post-core, art rock, heavy metal, denuncia poetica. Undici tracce, per un totale di settantacinque minuti e cinquantadue secondi: rispetto ai dischetti propinatici oggi, è un'enormità. Ma i Tool sfuggono a qualsiasi etichetta, a qualsiasi definizione: magmatici ed imprescindibili, vivono in un'ombra intellettuale e mai scontata. Già dalla copertina, s'intuisce che questo non è un disco come lo intendiamo noi terrestri: il totem orientaleggiante squadra con la sua imponenza tutti coloro che si avvicinano con timore alla band americana. I frattali all'interno del libretto, ipnotici ed ossessivi, trascinano occhio e mente in un oblio senza fine, con i loro colori accesi e snervanti. E infine c'è la musica.

La prima canzone de disco, “Vicarious” (scelta come primo singolo ufficiale) si apre con una chitarra strisciante ed ansiosa, in attesa di un trillo di sveglia in lontananza che precede l'esplosione. Il batterista Danny Carey si dà da fare per amalgamare alla meglio i tempi sconnessi dati dalla chitarra di Adam Jones con rullate fuori luogo, pulite, rapide e precise. La voce soffocata di Keenan è capace di sbattere in faccia al mondo domande retoriche poste con immensa amarezza (“Why can't we just admit it?”) quanto cantilene inebrianti (“La-la-la-la-la-la-lie”). Ed il pezzo si chiude come meglio non potrebbe: la voce, amplificata eppure lontana, del cantante viene rinforzata da una gragnuola di colpi da parte della batteria, abilissima a creare tempi dispari, neanche fossero caramelle. Si riparte, turbati eppure inconsapevolmente arricchiti, con “Jambi”: incipit da villaggio africano, con il riffone granitico iniziale che si incastra perfettamente con la conclusione di “Vicarious” e il successivo, furioso drumming di Carey. Il riff iniziale si rende poi ottimo sottofondo alla voce agrodolce di Maynard, che sfocia a tratti in un riecheggiante urlo, a tratti in un carezza ruvida, a tratti in un pugno d'acciaio dritto allo stomaco. Non è facile seguire tutti i cambiamenti di ritmo del pezzo: rabbiosa, tribale, sussurrante, ma sempre e comunque misteriosamente rock.

La terza composizione, “Wings For Marie”, dura la bellezza di diciassette minuti, ed è divisa in due parti: “Wings For Marie Pt.1” e “10.000 Days/ Wings Pt.2”. La prima frazione è una deliziosa e dolorante estasi: dopo l'incipit orientaleggiante, introdotto da una serie di echi ambigui ed ombrosi, giunge il momento di una sbilenca ed incompleta chitarra. Il testo è dedicato alla madre di Maynard, scomparsa in seguito ad una lunga malattia (10,000 Days sta a simboleggiare il tempo passato dalla signora a combattere contro l'agonia inarrestabile). Il lato più intimista e nascosto di Keenan si mette a nudo: il roccioso cantante si trasforma in dolce uomo, apprensivo, addolorato. Solo in un punto la rabbia del gruppo si mostra in tutta la sua algida potenza, quindici secondi di violenti riff accompagnati da uno stratosferico Carey. Ma ancora una volta, Maynard decide di proseguire - e concludere - sulla linea dolce iniziata precedentemente (strappalacrime il verso “She never told a lie / well, might she told a lie / but never lived it”). La seconda tappa è decisamente più cupa ed, in un certo senso, rassegnata: l'apertura con un temporale in sottofondo ne è l'emblema, ma anche la voce solista tocca il pessimismo cosmico, mantenendosi su toni decisamente bassi, sensazione rafforzata dai giri di chitarra, monotoni ed ossessivi. L'esplosione di rabbia che già aveva caratterizzato la parte precedente si ripete anche qui, più esacerbata e frustrata: la lieve chiusura, in punta di piedi, conclude un'opera formidabile per tecnica ed originalità.

Tocca a “The Pot”, sorta di nenia distorta e collaterale che si apre con un irrconoscibile Maynard in falsetto (“Who are you to wave your finger?”). Inevitabile quiete prima della tempesta: riff acidissimi si accompagnano a volteggi percussionistici dall'elevatissimo tasso tecnico. Quello che sorprende è comunque l'aspetto vocale: toni mantenuti sempre abbastanza alti, che si acuiscono in particolare nel ritornello (“You must have been, high, high!”). E non c'è posto per la noia: i rapidi cambi di tempo rendono impossibile un ascolto privo di attenzione e concentrazione. E noi li amiamo così.

Un brevissimo intermezzo (“Lipan Conjuring”, ispirato dal nome di una tribù Siouxie) composto di campanelli e lontani riecheggi, apre la strada ad un'altro, lunghissimo pezzo (quattordici minuti), come al solito diviso in due parti. La prima, “Lost Keys (Blame Hofmann)”, dedicata allo scienziato che scoprì le virtù dell'LSD, è una strumentale in cui compaiono sirene, arpeggi di chitarra, flauti di Pan. Un pretesto per svolgere l'ambientazione in un ospedale: la parte centrale della traccia è dedicata ad un dialogo fra un caposala, un'infermiera, ed un paziente problematico. Sotto esplicito invito del dottore (“Tell me everything...”) si apre la magmatica ed osticissima “Rosetta Stoned”. Riff violentissimi accompagnano un rap soffocato di Maynard fino a sfociare in sintetismi elettronici. Ma Maynard si rivela essere assai malleabile: parlotta, urla, canta disperatamente, inquieta, tutto sotto il segno dell'originalità e dello stupore. Forse esagera un pochino: la composizione è assai difficile da ascoltare nella sua totalità, e più di una volta si ha come l'impressione di uno svolgimento tirato troppo per le lunghe. Ancora un mattone sonoro, ancora una doppia divisione. Gli ennesimi quindici minuti sono spartiti fra “Intension” e “Right In Two”. La prima si apre con un lontano fruscio di foglie e risuono di campanelli. La percussioni sono dettate da bonghi, come una danza tribale attorno ad un fuoco. Ed infatti, il sapore che si ritrova addosso “Intension” è quello della propiziazione, della magia, della ritualità arcana e profonda, del mistero insondabile, in bilico fra passato remoto (ritmiche) e presente (inserimenti di synth elettronici). Con una strizzatina d'occhio al recente passato (chitarre progressive). “Right In Two” si apre con un arpeggio dai toni delicati e non invasivi. Il primo imprinting condiziona, più o meno, tutta la durata della canzone: poche esplorazioni in ambito prog e art rock, tutte sostenute più che brillantemente dall'extraterrestre Carey e dal bassista Justin Chancellor. Più di una volta i Tool lanciano rimandi alla precedente “Intension”, alla culla dell'Africa più Nera e recondita, luogo natìo dei primi ominidi, luogo delle prime scoperte, di cambiamenti climatici, di sconcertanti evoluzioni. In questo caso, non evoluzioni di specie, ma evoluzioni sonore: il suono, infatti, è sempre in movimento, mai scontato, mai banale, mai prevedibile.

E a chiudere quest'album memorabile (avevamo qualche dubbio forse?) ci pensa un'idea geniale. Maynard un giorno si alza, prende il suo fuoristrada per andare allo studio di registrazione, e mentre guida pensa: “e se registrassimo le contrazioni sistoliche di un cardiopatico in fibrillazione, mentre sta camminando?". Detto, fatto. Nasce così ventitré, pardon, “Viginti Tres”, cinque minuti di sospiri, soffi, rantoli, sbuffi campionati da una tastiera in ebollizione, il tutto coronato da un testo/non testo (non si riesce a capire dove ce l'hanno messo), interamente in latino.

Promosso a pieni voti, dunque. Non si può far altro che rimanere sbalorditi di fronte alla genialità messa in atto, ancora una volta, dai Nostri. Musica prima per la testa, poi per tutto il resto. E abbiamo detto niente, al giorno d'oggi.

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Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 35 voti.

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DonJunio (ha votato 8 questo disco) alle 20:11 del 19 gennaio 2007 ha scritto:

un cerchio (quasi )perfetto

L'album è complessivamente buono, anche se a mio avviso a livello compositivo non regge il confronto coi precedenti. Il gruppo si salva grazie al mestiere: la classe notoriamente non è acqua, ma da chi ha dimostrato di possedere i loro mezzi tecnici e compositivi ci si aspettava qualcosa di più ...

DonJunio (ha votato 8 questo disco) alle 20:12 del 19 gennaio 2007 ha scritto:

RE: un cerchio (quasi )perfetto

voto

Bartleboom (ha votato 8 questo disco) alle 13:43 del 24 gennaio 2007 ha scritto:

Give me my wings

..il solito "oceanico" Bisius!!D!rece scritta bene, ma di cui non condivido in pieno il contenuto e alcune affermazioni che definirei "rischiose" ("band capitanata da Keenan", ad esempio..). Quoto in toto invece il commento di Don: mestiere, tanto mestiere.. ovvvio poi che, visto il gruppo, il risultato si confermi molto buono. Ma i capolavori sono altri..Ciao!

reverse alle 20:27 del 19 aprile 2007 ha scritto:

mi associo. comunque buono, manierista ma non privo di bei passaggi.

Playing the Angel, per fare un esempio, è sicuramente peggiore, e pure più manierista.

Marco_Biasio, autore, alle 20:04 del 25 aprile 2007 ha scritto:

Concordo

Playing The Angel è un salto nel buio più completo, senza paracaduta, lanciato da un aereo a tremila metri d'altezza... con tonfo finale.

Giuseppe Pontoriere (ha votato 8 questo disco) alle 11:23 del 25 maggio 2007 ha scritto:

Beh...

Un album molto ben fatto, leggermente inferiore ad Aenima e Lateralus perchè meno ostico e di conseguenza più orecchiabile. I momenti morti sono quasi nulli ed i nostri sono in ottima forma. Credo che Viginti Tres sia relativamente inutile ma allo stesso tempo perfetta. Complimenti a Bisius, cono cui sono d'accordo.

Giuseppe Pontoriere (ha votato 8 questo disco) alle 11:24 del 25 maggio 2007 ha scritto:

Errata corrige

*con

Neu! (ha votato 4 questo disco) alle 13:18 del 10 novembre 2007 ha scritto:

...

che delusione...

Dasein (ha votato 5 questo disco) alle 12:28 del 12 febbraio 2008 ha scritto:

Passo falso

Tanta produzione e poca ispirazione. I due precedenti sono certamente più interessanti.

SanteCaserio (ha votato 6 questo disco) alle 19:47 del 8 aprile 2009 ha scritto:

Troppo mestiere?

Promosso a voti non pieni per me. Avevo apprezzato molto i lavori precedenti ma qui mi sembra che ci sia quasi solo metodo e non si esca troppo dal disco in sè

Bellerofonte alle 22:29 del 24 ottobre 2010 ha scritto:

Bazzicando sul web ho trovato questo...

http://blog.tambuweb.it/2006/05/27/tool-10000-days-ghost-track/

non so quanti sapessero o se qualcuno gia al tempo aveva postato da qualche altra parte. Io l'ho fatto con Adobe Audition! è Maestoso

Marco_Biasio, autore, alle 14:29 del 25 ottobre 2010 ha scritto:

RE:

Sì, girava da anni questa leggenda, confermata peraltro dalle strane corrispondenze tra i minutaggi delle varie canzoni. Non l'ho mai fatto, però Nel frattempo, disco nuovo previsto per il 2011. Sinceramente non ho molte aspettative (questo, seppur buono - riconfermerei a distanza d'anni l'8 - è effettivamente troppo inferiore a Lateralus) ma speriamo almeno non si sputtanino di brutto.

gianni m (ha votato 7,5 questo disco) alle 12:26 del 12 marzo 2016 ha scritto:

certo questo non regge il confronto col precedente lateralus, ma è sempre un album tool è sempre un avvenimento piacevole per le nostre orecchie .... speriamo che non dobbiamo attendere altri 10000 giorni per averne un'altro