Tool
10,000 Days
Un'uscita discografica dei Tool è sempre, nel bene o nel male (nel male mai, a dir la verità) un evento mediatico. Perchè i Tool non sono un gruppo qualsiasi. Ascoltando i loro dischi, assistendo ai loro concerti, vedendo i loro video, si può facilmente intuire che loro vivono musica. E non è una passione temporanea, una vena che s'infiamma ogni tanto, e per la maggior parte del suo tempo rimane in letargo, ad aspettare chissà cosa. Il loro è uno sposalizio, un tuttuno col mondo discografico, una vera e propria dedizione al tempio sacro della musica, che viene applicata scrupolosamente attraverso testi colti e potenti e prodigi strumentali (rullate dispari, quanto cambi di tempo, controtempo e melodia).
Cinque anni dopo il capolavoro indiscusso Lateralus, arriva nei negozi 10,000 Days, la nuova fatica della band, capitanata da Maynard James Keenan. Undici tracce di progressive metal, dentro le quali si fondono elementi hardcore, post-core, art rock, heavy metal, denuncia poetica. Undici tracce, per un totale di settantacinque minuti e cinquantadue secondi: rispetto ai dischetti propinatici oggi, è un'enormità. Ma i Tool sfuggono a qualsiasi etichetta, a qualsiasi definizione: magmatici ed imprescindibili, vivono in un'ombra intellettuale e mai scontata. Già dalla copertina, s'intuisce che questo non è un disco come lo intendiamo noi terrestri: il totem orientaleggiante squadra con la sua imponenza tutti coloro che si avvicinano con timore alla band americana. I frattali all'interno del libretto, ipnotici ed ossessivi, trascinano occhio e mente in un oblio senza fine, con i loro colori accesi e snervanti. E infine c'è la musica.
La prima canzone de disco, Vicarious (scelta come primo singolo ufficiale) si apre con una chitarra strisciante ed ansiosa, in attesa di un trillo di sveglia in lontananza che precede l'esplosione. Il batterista Danny Carey si dà da fare per amalgamare alla meglio i tempi sconnessi dati dalla chitarra di Adam Jones con rullate fuori luogo, pulite, rapide e precise. La voce soffocata di Keenan è capace di sbattere in faccia al mondo domande retoriche poste con immensa amarezza (Why can't we just admit it?) quanto cantilene inebrianti (La-la-la-la-la-la-lie). Ed il pezzo si chiude come meglio non potrebbe: la voce, amplificata eppure lontana, del cantante viene rinforzata da una gragnuola di colpi da parte della batteria, abilissima a creare tempi dispari, neanche fossero caramelle. Si riparte, turbati eppure inconsapevolmente arricchiti, con Jambi: incipit da villaggio africano, con il riffone granitico iniziale che si incastra perfettamente con la conclusione di Vicarious e il successivo, furioso drumming di Carey. Il riff iniziale si rende poi ottimo sottofondo alla voce agrodolce di Maynard, che sfocia a tratti in un riecheggiante urlo, a tratti in un carezza ruvida, a tratti in un pugno d'acciaio dritto allo stomaco. Non è facile seguire tutti i cambiamenti di ritmo del pezzo: rabbiosa, tribale, sussurrante, ma sempre e comunque misteriosamente rock.
La terza composizione, Wings For Marie, dura la bellezza di diciassette minuti, ed è divisa in due parti: Wings For Marie Pt.1 e 10.000 Days/ Wings Pt.2. La prima frazione è una deliziosa e dolorante estasi: dopo l'incipit orientaleggiante, introdotto da una serie di echi ambigui ed ombrosi, giunge il momento di una sbilenca ed incompleta chitarra. Il testo è dedicato alla madre di Maynard, scomparsa in seguito ad una lunga malattia (10,000 Days sta a simboleggiare il tempo passato dalla signora a combattere contro l'agonia inarrestabile). Il lato più intimista e nascosto di Keenan si mette a nudo: il roccioso cantante si trasforma in dolce uomo, apprensivo, addolorato. Solo in un punto la rabbia del gruppo si mostra in tutta la sua algida potenza, quindici secondi di violenti riff accompagnati da uno stratosferico Carey. Ma ancora una volta, Maynard decide di proseguire - e concludere - sulla linea dolce iniziata precedentemente (strappalacrime il verso She never told a lie / well, might she told a lie / but never lived it). La seconda tappa è decisamente più cupa ed, in un certo senso, rassegnata: l'apertura con un temporale in sottofondo ne è l'emblema, ma anche la voce solista tocca il pessimismo cosmico, mantenendosi su toni decisamente bassi, sensazione rafforzata dai giri di chitarra, monotoni ed ossessivi. L'esplosione di rabbia che già aveva caratterizzato la parte precedente si ripete anche qui, più esacerbata e frustrata: la lieve chiusura, in punta di piedi, conclude un'opera formidabile per tecnica ed originalità.
Tocca a The Pot, sorta di nenia distorta e collaterale che si apre con un irrconoscibile Maynard in falsetto (Who are you to wave your finger?). Inevitabile quiete prima della tempesta: riff acidissimi si accompagnano a volteggi percussionistici dall'elevatissimo tasso tecnico. Quello che sorprende è comunque l'aspetto vocale: toni mantenuti sempre abbastanza alti, che si acuiscono in particolare nel ritornello (You must have been, high, high!). E non c'è posto per la noia: i rapidi cambi di tempo rendono impossibile un ascolto privo di attenzione e concentrazione. E noi li amiamo così.
Un brevissimo intermezzo (Lipan Conjuring, ispirato dal nome di una tribù Siouxie) composto di campanelli e lontani riecheggi, apre la strada ad un'altro, lunghissimo pezzo (quattordici minuti), come al solito diviso in due parti. La prima, Lost Keys (Blame Hofmann), dedicata allo scienziato che scoprì le virtù dell'LSD, è una strumentale in cui compaiono sirene, arpeggi di chitarra, flauti di Pan. Un pretesto per svolgere l'ambientazione in un ospedale: la parte centrale della traccia è dedicata ad un dialogo fra un caposala, un'infermiera, ed un paziente problematico. Sotto esplicito invito del dottore (Tell me everything...) si apre la magmatica ed osticissima Rosetta Stoned. Riff violentissimi accompagnano un rap soffocato di Maynard fino a sfociare in sintetismi elettronici. Ma Maynard si rivela essere assai malleabile: parlotta, urla, canta disperatamente, inquieta, tutto sotto il segno dell'originalità e dello stupore. Forse esagera un pochino: la composizione è assai difficile da ascoltare nella sua totalità, e più di una volta si ha come l'impressione di uno svolgimento tirato troppo per le lunghe. Ancora un mattone sonoro, ancora una doppia divisione. Gli ennesimi quindici minuti sono spartiti fra Intension e Right In Two. La prima si apre con un lontano fruscio di foglie e risuono di campanelli. La percussioni sono dettate da bonghi, come una danza tribale attorno ad un fuoco. Ed infatti, il sapore che si ritrova addosso Intension è quello della propiziazione, della magia, della ritualità arcana e profonda, del mistero insondabile, in bilico fra passato remoto (ritmiche) e presente (inserimenti di synth elettronici). Con una strizzatina d'occhio al recente passato (chitarre progressive). Right In Two si apre con un arpeggio dai toni delicati e non invasivi. Il primo imprinting condiziona, più o meno, tutta la durata della canzone: poche esplorazioni in ambito prog e art rock, tutte sostenute più che brillantemente dall'extraterrestre Carey e dal bassista Justin Chancellor. Più di una volta i Tool lanciano rimandi alla precedente Intension, alla culla dell'Africa più Nera e recondita, luogo natìo dei primi ominidi, luogo delle prime scoperte, di cambiamenti climatici, di sconcertanti evoluzioni. In questo caso, non evoluzioni di specie, ma evoluzioni sonore: il suono, infatti, è sempre in movimento, mai scontato, mai banale, mai prevedibile.
E a chiudere quest'album memorabile (avevamo qualche dubbio forse?) ci pensa un'idea geniale. Maynard un giorno si alza, prende il suo fuoristrada per andare allo studio di registrazione, e mentre guida pensa: e se registrassimo le contrazioni sistoliche di un cardiopatico in fibrillazione, mentre sta camminando?". Detto, fatto. Nasce così ventitré, pardon, Viginti Tres, cinque minuti di sospiri, soffi, rantoli, sbuffi campionati da una tastiera in ebollizione, il tutto coronato da un testo/non testo (non si riesce a capire dove ce l'hanno messo), interamente in latino.
Promosso a pieni voti, dunque. Non si può far altro che rimanere sbalorditi di fronte alla genialità messa in atto, ancora una volta, dai Nostri. Musica prima per la testa, poi per tutto il resto. E abbiamo detto niente, al giorno d'oggi.
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