Steven Wilson
The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)
Sempre più deciso a non disperdere le energie messe in campo nel corso del suo primo tour da solista, culminato con la pubblicazione del magistrale documento live "Get All You Deserve", e a non rompere le fila della superlativa line-up che l'ha accompagnato (riconfermati Marco Minnemann alla batteria, Nick Beggs al basso, al Chapman stick e alle voci, Adam Holzman alle tastiere e al piano, Theo Travis al flauto e al sax; viene lasciato a piedi il solo Niko Tsonev, mentre al suo posto sale sul bus il più talentuoso chitarrista Guthrie Govan), Steven Wilson mette subito a frutto le idee sviluppate durante il suo attuale girovagare in un contesto musicale decisamente più virtuoso di quanto i Porcupine Tree si siano mai fatti portatori.
Con le canzoni già in tasca, nel giro di pochi giorni di infuocate sessioni in studio a Los Angeles con Alan Parsons (proprio lui) alla regia, "The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)" ha preso rapidamente forma. Quanto emerge è ancora di più ascrivibile al Progressive Rock classicamente inteso rispetto a quanto costruito nei due precedenti lavori in studio: Wilson prende le distanze anche dalle felici intuizioni trip-hop che pure con convinzione erano affiorate sia in Insurgentes del 2008 che in Grace For Drowning del 2011 (rispettivamente i brani Abandoner e Index), per buttarsi a capofitto nel mare primigenio, collocando le lancette della macchina del tempo fra il 70 e il 75 e provando a dimostrarci quanto quelle coordinate musicali possano ancora felicemente esprimersi nel presente, una volta transitate e centrifugate nel suo caleidoscopico frullatore cerebrale. Molto più marginale, rispetto a quanto accaduto nel precedente opus, il background Crimsoniano: ma solo perché stavolta la navigazione ha proceduto su altre rotte, fra quelle tracciate nei Seventies da altri capitani coraggiosi.
Luminol (che avevamo già incontrato in anteprima nel tour dello scorso anno) si apre con un intro classicamente Yes-oriented (basso e cori in grandissimo rilievo), a cui seguono sezioni che odorano, alternativamente, di Caravan, di jazz-rock, di Genesis (di cui nel finale si maneggiano le stesse atmosfere solenni di Watcher Of The Skies), per concludersi in una apoteosi prog, con strati spessissimi di Mellotron (ciò che sentite è prodotto da quello che Robert Fripp custodisce nella sua dimora), fantasmagorici giri di piano, incursioni di flauto e di sax, mentre una vertigine ritmica costruisce una scala che ascende verso le alte sfere celesti. Nella parte centrale, più sommessa, Wilson mette nuovamente in evidenza la sua passione per i giochi corali che furono di CSN&Y.
In Drive Home il mood generale (specialmente nella struttura, nel ritornello e nel liquido assolo posizionato in chiusura), ricorda davvero molto da vicino quella Shedmovedon che era su Lightbulb Sun dei Porcupine Tree, anche se qui è tutto più rallentato e avvolgente. Lintroduzione ha un sapore che mescola suggestioni Genesisiane (o forse bisognerebbe dire Hackettiane) e altre tipicamente Wilsoniane. Non a caso questo è lepisodio dellalbum più riconducibile a ballad spaziali come Stars Die e, in tempi recenti, come Deform To Form A Star (su Grace For Drowning). Ad ogni modo Drive Home poteva tranquillamente essere una nuova composizione della sua ex-compagine.
The Holy Drinker: contraddistinto da un incipit davvero ribollente dal sapore molto jazz-prog-rock (sospeso fra Return To Forever, Mahavisnu Orchestra e Henry Cow) con Theo Travis in vena di ruggenti svisate al sax, si rivela essere il più obliquo brano del lavoro, solcato da cori suggestivi, con Adam Holzman davvero protagonista al piano elettrico e all'organo, in particolar modo nella sezione conclusiva. Nel corso dei suoi dieci minuti tornano alla mente i Deep Purple d'annata (specialmente quando le danze volgono al termine), anche se nei frangenti più intricati e magniloquenti a riecheggiare sono gli ELP.
In The Pin Drop si ha limpressione, per landamento, per il ricorrente arpeggio di chitarra e per i cori, che il brano sia stato modellato su Drown With Me dei Porcupine Tree (presente sul bonus disc di In Absentia). Una sottile malinconia increspa tutta la vena melodia su cui il pezzo è costruito. Per forza di cose non è lepisodio più significativo del lavoro.
Con The Watchmaker (12 minuti...) ci troviamo di fronte al pezzo cardinale del lavoro. Ad una parte iniziale dal gusto Genesis (con riferimento particolare a For Absent Friends, anche se è tutto Nursery Cryme del 1971 ad essere preso come punto di riferimento), molto malinconica ed evanescente, segue una parte dove Wilson ci va giù pesante nella citazione dei Pink Floyd. In questo frangente, si ricalcano davvero troppo fedelmente sia Shine On You Crazy Diamond Pt.V (al sopraggiungere dellassolo di sax), sia il magmatico intermezzo strumentale di Money. Successivamente il piano prende il sopravvento e le voci (sempre molto in stile West Coast, se non addirittura in odor di Beach Boys in controluce) si aprono a scenari invasi da un sole abbacinante. Il finale é tesissimo e punta diritto in direzione sia dei Van der Graaf Generator, sia dei Genesis di The Fountain Of Salmacis.
A questo punto viene da pensare che la title-track possa costituire il momento più originale dellintero disco, anche se in essa si rinvengono le caratteristiche stilistiche di altre ballatone siderali del repertorio Wilsoniano (Collapse The Light Into Earth dei Porcupine Tree, ma anche il pezzo che da il titolo allabum dellesordio solista). Ad un introspettivo inizio, basato su ipnotico fraseggio di piano su cui si erge un canto dalle modalità non troppo differenti da quelle di Thom Yorke quando è inarcato sui tasti di ebano e avorio subentrano gli archi che aprono il brano verso un finale ascendente al modo in cui lo può essere una Awaken o una Starship Trooper degli Yes, tanto per proporre un vago esempio.
Non è dato capire quanto Wilson abbia delegato al nuovo chitarrista, gli oneri che in passato spettavano a lui: a giudicare dai video delle sessioni di registrazione messi on-line sul sito ufficiale, sembra sempre più chiaro che larguto musicista si stia sempre più ritagliando il ruolo di direttore dorchestra dei professionisti chiamati a dar voce alle sue composizioni. Anche perché gli assoli di chitarra sono divenuti sempre più complessi di quelli che popolavano i suoi precedenti lavori e dunque, per quanto Wilson sia un ispirato e preparato strumentista, difficilmente potrebbe condurre le danze in questi panorami maggiormente protesi al virtuosismo.
E ora viene il compito più difficile: dare una quotazione dinsieme ad un album (eccezionalmente) suonato e composto per soddisfare qualunque essere umano esiliato da questa terra intorno al 1975 e ritornato solo oggi nel suo pianeta natio. Ricordate il film Goodbye, Lenin! nel quale per non traumatizzare la madre ridestata da un lungo coma, il figlio si ingegna a ricostruire le location di vita quotidiana della Berlino prima della caduta del muro? Ecco, Steven Wilson compie unoperazione pressoché analoga (anche se con molto meno ironia), realizzando unopera di rara precisione nella ricostruzione di unera musicale e riuscendoci meglio di chiunque sia cimentato in un simile sforzo negli ultimi 30 anni. E, sebbene il livello di scrittura sia comunque molto alto, le citazioni e i riferimenti si sprecano. E così, a chiunque sia vissuto dei grandi capolavori degli Anni 70, in diretta o in differita, risulterà inizialmente difficile concentrarsi nellimmanente flusso sonoro, trovandosi a rincorrere i tanti echi che ad ogni piega si rivelano allascolto. Tutti coloro che invece, per la giovane età ma anche per altre ragioni, non siano così avvezzi con quel mondo e abbiano voglia di attraversarlo, allora oggi scopriranno di avere a disposizione una aggiornatissima mappa per guidarli nellimpresa. La malia di The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) è talmente ben ordita da insinuarsi, anche al di là di ogni reticenza, di ogni ragionevole dubbio: così pur essendo tangibili i limiti creativi di un album siffatto, il suo meraviglioso peso tende a rivelarsi un fardello di cui è godurioso farsi carico. Nei momenti in cui ci si abbandona alla forza evocativa e alla fascinazione di questo sunto (incompleto) della storia del prog, remore e incertezze sembrano dissolversi. Ma anche sottraendo le orecchie al canto delle sirene, la valutazione del disco non può essere penalizzata riconducendo il tutto a mera suggestione o a semplice nostalgia.
Ricordare quante volte fra fine Anni 90 e inizio Anni 2000 Wilson si é prodigato nel mettere in guardia i suoi fan delle operazioni tese a restaurare pedissequamente lera del prog e della psichedelia (in parte abiurando anche ciò che avevano fatto i Porcupine Tree di The Sky Moves Sideways), spingendoli a guardare avanti, induce ad esporre le odierne scelte del compositore inglese ad una pletora di interpretazioni (alcune delle quali non molto indulgenti), tenendo in considerazione che ormai è anche divenuto il guru indiscusso dei mix 5.1, offrendo i suoi servigi a King Crimson, ELP, Caravan, Jethro Tull che hanno affidato a lui il restauro dei loro grandi capolavori.
Le esortazioni dello Steven Wilson trentenne probabilmente originavano dai timori di vedere annullata o anche solo ridimensionata la propria poliedrica valenza artistica (che perseguiva attraverso progetti anche decisamente poco consonanti fra loro: Bass Communion, I.E.M., no-man...), alla luce di una inclinazione passatista; timori verosimilmente avvalorati da una serie di atteggiamenti ben riscontrabili nelle tribune della musica indie, oggi come dieci, venti o trenta anni fa. Ho spesso potuto constatare e come lho fatto io, lavrà senzaltro fatto Wilson quanto ferocemente vengano attaccati gli artisti che si arrischiano nel revival progressivo, rispetto ai tanti che, a partire da terreni poveri di humus compositivo, riescono a costruire altisonanti carriere di agricoltori sonori completamente allombra di alberi non meno secolari annaffiati di new-wave, elettronica, post-punk, industrial, black music, folk (americano o inglese). Eppure, in qualche misura, sembra sempre che chiunque si impegni con intenzioni più o meno sincere a ridare nuove prospettive di espressione alla stagione doro del Prog sia da squalificare a prescindere, riconducendo loperazione alledificazione di un tronfio Jurassic Park, rispetto alla genuinità dei giardini dinfanzia allestiti dalle band di grido che ci vengono segnalate dai siti bene dellInghilterra che conta.
Penso che lera dei grandi mastodonti del prog (non tutti inclini ad adattarsi alle mutazioni ambientali), ultimatasi con il cataclisma causato dal meteorite punk, abbia spianato la strada alla congettura comunemente condivisa che chiunque torni ad assumere le sembianze di quegli arcaici e caracollanti esseri, meriti oggi come allora un analogo abbattimento culturale: e poco importa che a pensarla così siano anche alcuni fra gli stessi ex-giovani dei primi 70, quello che prevale è che mediamente qualsiasi gruppo derivativo punk, sia degno di sopravvivere sempre e comunque a qualsiasi gruppo derivativo prog. La storia deve sempre ripetersi. Lepopea di quellera deve essere (considerata) terminata, per principio e in virtù di un fine partita apocalittico. Personalmente ritengo che i risultati più avvincenti (per il cervello, per il cuore e per la storia della musica tutta) abbiano avuto luogo proprio quando alcune formazioni This Heat e Cardiacs sono i nomi a me più cari hanno smesso di ragionare per dicotomie dando il via ad azzardi acutissimi che magari non hanno pagato commercialmente, ma che hanno rifulso con pazzoidi e necessari lampi di genio.
Mentre resta solo una teoria non confermata, il fatto che colui che fu il leder dei Porcupine Tree, forse vista linutilità degli sforzi nel cercare di affrancarsi da etichette che ormai gli si erano cucite sulla pelle, abbia deciso di tornare in quel mare magnum, affrontando con inusitata consapevolezza le sue acque pericolose, fino a sondarlo a profondità mai raggiunte prima. Nel far ciò, limitazione degli archetipi non si esaurisce con la ripetizione di modelli, ma trova spazi di manovra per ristabilire un rapporto, per quanto possibile, incontaminato quasi fanciullesco con la musica delle origini, ossia quella che girava attorno ad un introverso bambino inglese.
Non nutro dubbio alcuno che i King Crimson di The ConstruKction Of Light (2000) come anche di The Power To Believe (2003) hanno vissuto su ben più distanti pianeti, sapendo edificare alla fine del loro articolato excursus sonoro forse la più moderna, alterata, ibridata ipotesi di musica progressiva che qualsiasi altro artista proveniente da quelle stesse lande, e con le stesse decadi sulle spalle, abbia mai portato alla luce: dunque Wilson da loro ha ben altro da imparare che il semplice sentirsi in comunione di spirito con il Fripp di oltre quaranta anni orsono. Tuttavia lo Steven Wilson del presente che purtroppo non è più lamato autore dellascetica magia dei no-man e che ingenuo non lo è di sicuro è di fatto oggi, nel secondo decennio del 2000, il più illustre, abile e scaltro interprete del progressive anni 70, nonostante ciò costituisca in sé un paradosso. Certamente rimane un domatore che sa spettacolarmente destreggiarsi con leoni ben addestrati da altri Mastri circensi. Ma sono persuaso che quanto in futuro il chitarrista/compositore avrà da offrirci non si esaurirà su questo stesso terreno di gioco.
Nonostante ogni altra considerazione, il disco, un vero golem sonoro plasmato con unarte dalla sapienza antica, attende solo che lascoltatore (e lui solo), in base alla sua storia e al suo grado di sintonia con la musica in esso rappresentata (e non tanto con il suo artefice), ne decreti il diritto allesistenza lasciando intatte le lettere impresse sulla fronte di questa mitologica creatura (emet, vita, verità) oppure cancellando la vocale e (met, morte) e consegnandola alla terra e alloblio.
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