Motorpsycho
Still Life With Eggplant
Lanno scorso, al pregustare la grandeur trionfale dellardito The Death Defying Unicorn, presentii come questo sarebbe stato lultimo (doppio) atto di riscoperta delle radici prog dei Motorpsycho, ufficialmente intrapreso con Little Lucid Moments e gradatamente approfondito, sino a raggiungere livelli di sofisticatezza non facilmente formulabili. Mi sbagliavo. È la prima volta, peraltro, che mi tocca ritornare sui miei passi, rimangiare una parola lanciata a colpo sicuro e ridiscutere un principio che avrei ritenuto non negoziabile: limprevedibilità del trio di Trondheim. Nessuna apertura a nuovi orizzonti, nessuna chiusura dellennesimo ciclo ed fibrillante apertura di unaltra era, demarcata nettamente rispetto alla precedente e pur sempre con essa in straordinaria continuità. Cè continuità, sicuramente, ma solo perché gli invincibili norvegesi rimangono con i piedi ben piantati nella grassa terra di cui si nutrono oramai da molti anni a questa parte: le rigogliose vallate della jam psichedelica in libera espansione.
Non fosse, anzi, per la presenza di quella stupenda ballata conclusiva che è The Afterglow, sopraffino gioco melodico di incastri strumentali, con Bent Sӕther a ruggire come lindomabile leone indie rock degli anni 90 e la chitarra di Hans Magnus Snah Ryan a giocare lungamente con slide, effetti e scorci panoramici di straordinaria visione complessiva (il folk inglese di fine 60 ribaltato in prospettiva americana ed illuminato da una sensibilità ancora fuori dal comune), non ci si dovrebbe fare grossi problemi a considerare Still Life With Eggplant come il primo, forse secondo, passo falso dei Motorpsycho. Più che un disco brutto in sé o di per sé, strutturalmente fragile o dimpostazione frettolosa le forze che sostengono lo stakanovismo prima o poi vengono naturalmente a mancare , è la mancanza di prospettiva sul lungo termine che lascia perplessi e costringe a ristrutturare un pensiero organico su un album compatto, ma sostanzialmente insapore. A volere mettere le caselle, Still Life With Eggplant si accoda subito dietro a Heavy Metal Fruit del 2010 e si propone come sua versione alleggerita, semplificata, popolare: lhard-psych spiegato, in pillole, a chi non ha tempo da perdere. Che posto troviamo, allora, per lapprezzabile esperimento di The Death Defying Unicorn? Come spiegare questo improvviso rivolgersi indietro per un ciclo, lultimo, che aggiungeva sempre nuovi gradienti desperienza sonora al palesarsi dei più recenti capitoli?
Non cè una risposta univoca, e nemmeno la possibilità di aggrapparsi allerrore strategico come sbocco e punto di fuga di ogni ragionamento complesso. Invidiabile è, anzi, lunidirezionalità che pervade le fibre del loro sedicesimo (!) full length in studio: una summa di mestiere, esperienza, intuito. Il problema, se di problema unico si può parlare, è che di un album così, di una testimonianza sullo stato mentale e fisico dei Motorpsycho A.D. 2013, vista e considerata la recente parabola del gruppo, non se ne avvertiva granché il bisogno. Il resto della scaletta è eloquente. Hell, Part I-III carbura lenta e distonica, scandinava nella nuance di Shining o Bushmans Revenge: sincendia classicamente hard rock a metà, con un andamento ed un contagioso, semplice main riff su pentatonica a ricordare troppo da vicino i poderosi pilastri portanti di brani come She Left On The Sun Ship, W.B.A.T. o Through The Veil; si spegne a singhiozzo, infine, tambureggiata funk sulle pelli dellirrefrenabile Kenneth Kapstad, giovane metronomo di una coda in acido su fraseggi minimal-blues. August, ormai ne avrete fin sopra i capelli a leggerlo, è la seconda cover in assoluto inclusa in un disco dei Motorpsycho, a più di ventanni dalla California Dreamin di 8 Soothing Songs For Ruth: loriginale dei Love si trasforma in un tam-tam acustico con lunghe parentesi strumentali ed una velatura quasi gitana. Lospite Reine Fiske, dei Dungen, fa bella mostra di sé nel fingerpicking che apre le danze su Barleycorn (Let It Come / Let It Be), i primi Porcupine Tree cantati dallemozionante, caratteristico amalgama vocale di Bent e Snah, con un chorus arioso quasi Who ed una palpitante disgregazione interstellare. I guai arrivano dopo: buttando laffaire, insomma, ancora una volta sul free form. Peccato che Ratcatcher, diciassette minuti di acidissimo jazz rock in formalina, tagli letteralmente le gambe e riveli una logorrea sconnessa, tediosa, a tratti persino fastidiosa nel girare in tondo attorno ad un falso centro di gravità: il songwriting del brano, diluito in mille rivoli espressivi, non decolla mai.
Parlerete con un appassionato di rock contemporaneo e capirete come i Motorpsycho sono il gruppo dei dischi indimenticabili e dei torrenziali live infuocati. Anni fa, il trascinare di peso le dinamiche improvvisative del concerto nei solchi del formato fisico fu una scoperta gradita ed uninnovazione riuscita: che ora, però, come ogni cosa a questo mondo, comincia a mostrare la corda.
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