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R Recensione

6/10

Motorpsycho

Still Life With Eggplant

L’anno scorso, al pregustare la grandeur trionfale dell’ardito “The Death Defying Unicorn”, presentii come questo sarebbe stato l’ultimo (doppio) atto di riscoperta delle radici prog dei Motorpsycho, ufficialmente intrapreso con “Little Lucid Moments” e gradatamente approfondito, sino a raggiungere livelli di sofisticatezza non facilmente formulabili. Mi sbagliavo. È la prima volta, peraltro, che mi tocca ritornare sui miei passi, rimangiare una parola lanciata a colpo sicuro e ridiscutere un principio che avrei ritenuto non negoziabile: l’imprevedibilità del trio di Trondheim. Nessuna apertura a nuovi orizzonti, nessuna chiusura dell’ennesimo ciclo ed fibrillante apertura di un’altra era, demarcata nettamente rispetto alla precedente e pur sempre con essa in straordinaria continuità. C’è continuità, sicuramente, ma solo perché gli invincibili norvegesi rimangono con i piedi ben piantati nella grassa terra di cui si nutrono oramai da molti anni a questa parte: le rigogliose vallate della jam psichedelica in libera espansione.

Non fosse, anzi, per la presenza di quella stupenda ballata conclusiva che è “The Afterglow”, sopraffino gioco melodico di incastri strumentali, con Bent Sӕther a ruggire come l’indomabile leone indie rock degli anni ’90 e la chitarra di Hans Magnus “Snah” Ryan a giocare lungamente con slide, effetti e scorci panoramici di straordinaria visione complessiva (il folk inglese di fine ’60 ribaltato in prospettiva americana ed illuminato da una sensibilità ancora fuori dal comune), non ci si dovrebbe fare grossi problemi a considerare “Still Life With Eggplant” come il primo, forse secondo, passo falso dei Motorpsycho. Più che un disco brutto in sé o di per sé, strutturalmente fragile o d’impostazione frettolosa – le forze che sostengono lo stakanovismo prima o poi vengono naturalmente a mancare –, è la mancanza di prospettiva sul lungo termine che lascia perplessi e costringe a ristrutturare un pensiero organico su un album compatto, ma sostanzialmente insapore. A volere mettere le caselle, “Still Life With Eggplant” si accoda subito dietro a “Heavy Metal Fruit” del 2010 e si propone come sua versione alleggerita, semplificata, popolare: l’hard-psych spiegato, in pillole, a chi non ha tempo da perdere. Che posto troviamo, allora, per l’apprezzabile esperimento di “The Death Defying Unicorn”? Come spiegare questo improvviso rivolgersi indietro per un ciclo, l’ultimo, che aggiungeva sempre nuovi gradienti d’esperienza sonora al palesarsi dei più recenti capitoli?

Non c’è una risposta univoca, e nemmeno la possibilità di aggrapparsi all’errore strategico come sbocco e punto di fuga di ogni ragionamento complesso. Invidiabile è, anzi, l’unidirezionalità che pervade le fibre del loro sedicesimo (!) full length in studio: una summa di mestiere, esperienza, intuito. Il problema, se di problema unico si può parlare, è che di un album così, di una testimonianza sullo stato mentale e fisico dei Motorpsycho A.D. 2013, vista e considerata la recente parabola del gruppo, non se ne avvertiva granché il bisogno. Il resto della scaletta è eloquente. “Hell, Part I-III” carbura lenta e distonica, scandinava nella nuance di ShiningBushman’s Revenge:  s’incendia classicamente hard rock a metà, con un andamento – ed un contagioso, semplice main riff su pentatonica – a ricordare troppo da vicino i poderosi pilastri portanti di brani come “She Left On The Sun Ship”, “W.B.A.T.” o “Through The Veil”; si spegne a singhiozzo, infine, tambureggiata funk sulle pelli dell’irrefrenabile Kenneth Kapstad, giovane metronomo di una coda in acido su fraseggi minimal-blues. “August”, ormai ne avrete fin sopra i capelli a leggerlo, è la seconda cover in assoluto inclusa in un disco dei Motorpsycho, a più di vent’anni dalla “California Dreamin’” di “8 Soothing Songs For Ruth”: l’originale dei Love si trasforma in un tam-tam acustico con lunghe parentesi strumentali ed una velatura quasi gitana. L’ospite Reine Fiske, dei Dungen, fa bella mostra di sé nel fingerpicking che apre le danze su “Barleycorn (Let It Come / Let It Be)”, i primi Porcupine Tree cantati dall’emozionante, caratteristico amalgama vocale di Bent e Snah, con un chorus arioso quasi Who ed una palpitante disgregazione interstellare. I guai arrivano dopo: buttando l’affaire, insomma, ancora una volta sul free form. Peccato che “Ratcatcher”, diciassette minuti di acidissimo jazz rock in formalina, tagli letteralmente le gambe e riveli una logorrea sconnessa, tediosa, a tratti persino fastidiosa nel girare in tondo attorno ad un falso centro di gravità: il songwriting del brano, diluito in mille rivoli espressivi, non decolla mai.

Parlerete con un appassionato di rock contemporaneo e capirete come i Motorpsycho sono il gruppo dei dischi indimenticabili e dei torrenziali live infuocati. Anni fa, il trascinare di peso le dinamiche improvvisative del concerto nei solchi del formato fisico fu una scoperta gradita ed un’innovazione riuscita: che ora, però, come ogni cosa a questo mondo, comincia a mostrare la corda.

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.
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ThirdEye 4,5/10

C Commenti

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ThirdEye (ha votato 4,5 questo disco) alle 1:17 del 13 maggio 2013 ha scritto:

Sono anni ed anni oramai che girano a vuoto, che non hanno più nulla da dire, dischi sempre più prolissi, pomposi, e vuoti...Lontani sono i tempi di capolavori come "Blissard". Il loro ultimo album davvero valido fu quella piccola meraviglia di pop barocco di "Let Them Eat Cake". Poi, iniziò il lungo declino...Quanto durerà ancora non ci è dato saperlo!

Marco_Biasio, autore, alle 16:55 del 13 maggio 2013 ha scritto:

Cioè è da 13 anni che i Motorpsycho sfornano vuoto pneumatico? No, dai, non ci credo... questo è un commento da fan deluso! Sono d'accordo che questo sia un disco assolutamente minore (anche se, ancora, 4.5 è pesantino...), ed è minore più che altro perché si considerava chiusa la "trilogia" hard-psichedelica, peraltro venata di quel sempre maggiore sperimentalismo che qui invece manca (l'indie rock malinconico e jammato di Little Luccid Moments è diversissimo dal jazz rock tecnico e orchestrale di The Death Defying Unicorn, per dire) e lo si considerava come nuovo atto di una nuova esplorazione sonora. Mi sembra quantomeno ingiusto far finire i tre con Let Them Eat Cake, lasciando fuori Phanerothyme e, almeno, Little Lucid Moments (ricolmo di tutte quelle melodie già riprese anche in Black Hole / Blank Canvas e che hanno fatto la fortuna del gruppo, con una Year Zero che se si è veri fan "storici" è impossibile non farsi piacere) ed Heavy Metal Fruit. Qui si poteva fare meglio - anche se, al solito, questi brani live si trasformano - ed infatti attendo fiducioso il prossimo disco che, ormai, prevedo seguirà ancora la stessa scia... Perché richiedere indietro il gruppo (originario) di Demon Box e Blissard? Hanno scelto - giustamente - di fare altro, per non cadere vittima dei propri stessi cliché, e non rinunciando tuttavia ad esplorare i nuovi meandri con il supporto del proprio inconfondibile marchio di fabbrica (qui, August e The Afterglow).