Porcupine Tree
The Incident
A servire due padroni, a fare il doppio gioco, a vestire i panni del Giano della situazione sono buoni tutti. Il brutto è che si finisce per inguaiarsi: lo dicono, sin dallantichità, filosofi, pensatori, addirittura apostoli. Citando, inoltre, un aforisma validissimo di un personaggio tristemente noto per tuttaltri motivi, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Non voglio dire, con questo, che spendo le mie sovraccariche giornate a spargere zizzania su Steven Wilson, dacché è un musicista intelligente, estremamente capace ed altrettanto pratico e, personalmente, non amo nemmeno un po il chiacchiericcio gossipparo da radical-chic. Lui, ultimamente, non mi sta però rendendo facile il compito. Prima incrinatura con Deadwing che, almeno credevo, si sarebbe ricomposta in un batter di ciglia. Poi, in appena un anno e mezzo, la sequenza Fear Of A Blank Planet seconda crepa, nettamente più profonda , lEP Nil Recurring scivolato via senza togliere né aggiungere nulla - ed il salvataggio, in calcio dangolo, con il lavoro solista, Insurgentes, di appena qualche mese fa.
The record is set to be released via Roadrunner Records worldwide on 21st September, as a double CD. The centre-piece is the title track, which takes up the whole of the first disc. The 55-minute work is described as a slightly surreal song cycle about beginnings and endings and the sense that after this, things will never be the same again.
Traduzioni sommarie a parte: ahia. Dopo la visione dellartwork: ahia (dove ho già visto quella mano protesa ?). Non staranno forse strafacendo? Smoderata elefantiasi, incontenibile genio, difficoltà di contenimento dellego, pericoloso accentramento del gruppo nelle mani di un unico coordinatore, alla stregua di quanto sta succedendo con gli amici Opeth? The Incident, decimo capitolo di coloro che, quasi ventanni fa, vennero definiti i nuovi Pink Floyd rischia, monumentalità a parte, di divenire davvero un incidente di percorso non facilmente risanabile. Lascolto, come le stage directions fornite agli attori in parentesi, conferma uno ad uno perplessità e riserve, facendo calare un pesante macigno su quelle che potrebbero essere le parabole future dei Porcupine Tree.
Mettiamo da parte, per ora, le polemiche sul disco, e concentriamoci su una domanda chiave, affinché si possano capire le vere mire del gruppo, ammesso ci siano: come vi sentireste a vedere il gruppo della vostra vita cambiare completamente stile, direzione, intenzione? Onde essere frainteso, mi spiego: avrebbe un senso Bob Dylan alle prese con il reggae? Gli U2 fra redneck e post-core? I Prodigy a fare da turnisti per Antony? Similmente, a chi nasce con determinate ambizioni e con unimpostazione sbilanciata verso la psichedelia parrà strano, gradatamente, abbeverarsi alle fonti del metal più sordo, cupo e fracassone. Non significa evitare le evoluzioni, semplicemente non mettere le mani su materiale, per natura, incompatibile. Una sovrapposizione, tra numeri datmosfera e schianti in dissolvenza, che ha cominciato ad assumere peso specifico su In Absentia, ma lì il rapporto era decisamente più equilibrato e fascinoso. Sette anni più tardi, il quadro si è, di fatto, ribaltato, facendo dei PT un altro gruppo e del loro suono unaltra faccenda. Minore.
Quindi? Primo chiarimento: quella che è stata chiamata suite, title track divisa in quattordici movimenti, è in realtà niente più che un unione di segmenti parecchio differenti fra di loro per forma, contenuto e musicalità (se si escludono, certamente, alcune reprise allinterno). Disuguaglianza, dislivello, imparità sono disvalori che ricorreranno molte volte in The Incident, a partire già dal terribile attacco, con Occams Razor prima e The Blind House poi, con un songwriting fragilissimo, coperto da una montagna di chitarre pesanti ammonticchiate senza criterio. Verrebbero in mente i King Crimson di The Power To Believe, se non fosse che linfernal sextet di marchio Fripp aveva in sé il triplo di coesione, potenza e incisività. Niente passaggio di testimone, dunque, men che meno quando Wilson inserisce nel pacchetto Drawing The Line, piano-rock assolutamente mediocre con ritornello da singalong ed echi riverberati sul fondo, uno dei peggiori brani mai scritti nellultimo decennio dallocchialuto chitarrista. The Incident, sorta di industrial metal reiterato e chiassoso senza un briciolo di tensione e, anzi, con coda nuovamente volta al facile intercalare, è la stigma che farebbe chiudere preventivamente ogni discorso.
I brevi stacchi acustici, o con le sei corde portate su di un livello comunque ridotto, sembrano solamente filler, abbozzi di idee che, lavorate meglio, avrebbero potuto ridare linfa e continuità ad un troncone ormai agonizzante (Great Expectations, lacidità visionaria e un po tediosa di Your Unpleasant Family, addirittura lambient di The Yellow Windows Of The Evening Train). Se non altro, motivo di magra consolazione, si arriva allepisodio chiave del disco, gli undici minuti di Time Flies, con delusione e, visto quanto prima, timore per ulteriori crac. Attesa pienamente ripagata ma, licet dicere, che i Porcupine Tree fossero giocolieri capaci di estrarre grandi numeri dal cilindro non è una novità: apertura acustica eppure vigorosa, con sfaldarsi solistico e in divenire lisergico, guardando da un lato The Sky Moves Sideways rieccolo il tocco gilmouriano, diamine! e dallaltro i Tool meno ascetici. Duplice corteggiamento, allora, che sembra ritornare sulla retta via anche sotto i colpi di Octane Twisted, tarantolante prog dalle aperture corrosive, e I Drive The Hearse, assolutamente vintage e settantina, tra echi di Genesis e scivoli di arpeggi. Se non fosse che in mezzo, regola ormai inamovibile, si strizza anche locchio sbagliato, tornando a disfare bobine ormai ben avviate per aguzzare arrembaggi metallici obiettivamente pleonastici, con riciclo in sordina dello stesso riffaggio violento ma insapore (Circle Of Manias).
Benché The Incident si possa dire, quando più quando meno, operazione fallimentare, la votazione avrebbe potuto essere dapprincipio inferiore, in mancanza del più inusuale dei colpi di scena: un ulteriore EP di quattro brani incluso, come corollario, allepisodio madre. Mirabilis dictu, ma in una ventina di minuti Wilson e compagni realizzano quello che non erano riusciti a condensare in quasi unora di musica: siano le dilatazioni psych-pop dotate di mellotron di Flicker, una Bonnie The Cat quasi trip-hop con bruciante accelerazione thrash metal da maestri consumati che, ci voleva tanto? -, il languido melodramma di Black Dahlia, addobbata addirittura con un violino, e la classica chiusura con Remember Me Lover, sospesa delicatezza con crescendo hard e fotografia conclusiva dello stato Porcupine Tree 2009.
A pensarci bene, però, il riconoscere a sprazzi i porcospini di un tempo, sotto il velo friendly di oggi, e il constatare che la loro scomparsa non è selettiva né fisiologica, ma voluta e contro natura, non può far altro che aumentare lacredine.
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