Steven Wilson @ Auditorium Parco della Musica, Roma, 4-07-2013
Va bene, giù le carte. Ho perso il conto dei concerti con Steven Wilson protagonista che ho visto e recensito. Seguo il musicista inglese dalluscita di quel Moonloop E.P. che traghettava i Porcupine Tree da Up The Downstair a The Sky Moves Sideways, sancendo il definitivo passaggio verso le coordinate di un progressive astrale decisamente abbagliato da fulgori floydiani. Laver seguito Mr. Wilson da quel lontano 1994, non ha coinciso tuttavia con una totale adesione ai suoi sbalzi dumore, ai suoi ripensamenti, alle sue ritrattazioni. Come, daltronde, far coincidere quel personaggio che ad inizio Anni 90 in vena di allontanamento degli schemi del prog rimbrottava ai propri fan che una canzone non si valuta in base alla sua durata e che i Beach Boys erano più cerebrali e innovativi di tanti dinosauri dalle forme barocche, con il maestro di cerimonie che oggi è considerato il più grande vate del progressive del nuovo millennio sia dai tanti estimatori che idolatrano le chilometriche composizioni (radicate nel cuore pulsante dei 70s), sia proprio da quei vecchi dinosauri (che gli affidano i mix 5.1 dei propri storici capolavori)? Lascio ai lettori le congetture. Io, lo ammetto, non sono riuscito a conciliare del tutto questi due atteggiamenti antitetici, senza meditare su retroscena furbeschi. Nonostante ciò, nei suoi dischi a suo nome, continuo a provare, qui e lì, emozioni e suggestioni che forse mi appartengono di più di ciò che voglio ammettere. E con questo spirito che ho preso parte al concerto dellAuditorium che sin da subito si è caratterizzato come una celebrazione. La piena consacrazione del pubblico romano alle arti più o meno magiche del compositore britannico: non cé stato bisogno da parte sua di conquistare la platea. Ogni difesa era già abbassata, ogni reticenza vinta in partenza. Il gruppo, rivisitato nella line-up, stellare: Nick Beggs al basso, al Chapman Stick e ai cori, Aldam Holzman a tastiere, piano elettrico e non, sintetizzatori, Theo Travis al flauto, al clarinetto e ai sax, Guthrie Govan alla chitarra, Chad Wackerman allinfausto compito di sostituire Marco Minnemann alla batteria. Rispetto allultimo concerto allOrion di Ciampino (RM), Steven Wilson si è molto più integrato nella band, evitando quegli atteggiamenti da direttore dorchestra e, probabilmente forte di una accresciuta sicurezza al cospetto di cotanti musicisti professionisti, ha rivendicato la propria validità come strumentista passando dalle chitarre, ai synth, al Mellotron, al basso a sei corde: sicuramente decisivo il suo contributo alle chitarre acustiche.
The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) viene eseguito nella sua interezza e le sue canzoni distribuite nel corso delle quasi due ore e venti di concerto.
Luminol (che apre la serata, zigzagando disinvoltamente dagli Yes ai Genesis), The Holy Drinker (un ibrido polimorfo fra ELP e Deep Purple), The Watchmaker (uno smarrimento sensoriale sospeso fra Genesis, King Crimson e Pink Floyd), Raider II (25 minuti di vertiginoso compendio progressivo che omaggia Henry Cow, PFM, Van Der Graaf Generator e, ovviamente, King Crimson), sono le pietre miliari del percorso solista dellex-leader dei PT, accolte con acclamazione da una platea anagraficamente variegata: si va dai teenager con le magliette degli Opeth agli ultra-quarantenni con le T-shirt del tour di The Sky Moves Sideways.
Io, personalmente, sento più mie una Index (con il suo disturbato trip-rock), una No Part Of Me (moderno jazz-rock tecnologico, con derive verso territori metal-crimsoniani), una Insurgentes (una estasi ambientale, nata dallaria e capace di farsi aria), una Drive Home (anche se ripercorre troppo fedelmente, pur decelerando i tempi, quella Shesmovedon che appartenne ai PT), che non i puzzle progressivi nei quali sono così smaccatamente riconoscibili, una ad una, le citazioni dei numi tutelari di questi territori inaugurati nel secondo album Grace For Drowning e portati sugli altari dal recente The Raven That Refused To Sing (and Other Stories).
Steven Wilson tuttavia, pur nel periglioso gioco al rimando, riesce a dimostrare di essere divenuto il più abile fra tutti gli artisti della rievocazione: non so neppure io se dare a ciò una connotazione positiva o negativa, visto che a conti fatti la sua arte di rimettere mano ad una materia sonora così antica e così eloquentemente già trattata è comunque sopraffina e tale da sgombrare il campo da altri epigoni di quegli anni allinsegna dellepicità e del rifiuto della forma-canzone.
A spostare il teatro della memoria restaurato da Wilson verso lidi più canterburiani o comunque jazz-rock, provvedono con perizia e ispirazione Adam Holzman (il più anziano fra i membri della band fu a servizio anche di Miles Davis) e Theo Travis (di cui invito a riscoprire la discografia, anche a partire dai recenti progetti co-firmati con Robert Fripp): Deform To Form A Star è senza dubbio alcuno il punto nel quale lapporto dei due musicisti tocca lapice, regalando anche in virtù di una intro pianistica dal chiaro sapore Jarrettiano una gemma dal bagliore siderale. Anche la title track del nuovo disco, che chiude il set ufficiale, dona un lungo momento in cui staccare i piedi da terra, mescolando una profondissima malinconia a una aspirazione al travalicamento degli affanni umani, che fonde gli stimoli emersi nel progetto Storm Corrosion al richiamo degli Yes più ascensionali. Lunico bis è un omaggio a se stesso e al pubblico con qualche anno sulle spalle in più: un omaggio a quella prima phase nella quale i Porcupine Tree erano solo lo pseudonimo scelto da un giovanissimo musicista inglese che provava a ridar vita allepopea psichedelica e alle istanze space-rock che tanto avevano formato la sua personalità. Io ero fra i tanti a gridare a radioactive toyyyyy!!! a quei fatidici concerti presso lormai scomparso Frontiera (e precedentemente, al primo appuntamento italiano al Palladium di Roma) dove venne registrato quellinsuperato documento live intitolato Coma Divine, e un po per la nostalgia, un po per la voglia di farsi appartenere di nuovo quello che fu un inno generazionale per i ventenni post-progressivi ad inizio Anni 90 ero fra quelli in piedi sotto il palco dellAuditorium a gridare il ritornello fino a farmi gonfiare le vene del collo. I Porcupine Tree sono stati i miei Pearl Jam, i miei Oasis, forse anche i miei Radiohead, inutile negarlo. Il feeling del Frontiera è stato ben riportato alla luce nella Sala Sinopoli dell'Auditorium Parco della Musica, con la lucida coscienza però che la Storia della Musica, si aspetta ben altro da un musicista che non una pur raffinata riesumazione di quanto già concepito e sviluppato (ad arte) quarantanni or sono. Wilson non può far finta di non saperlo: si goda pure questo momento, ma che sappia anche accedere di nuovo a quella parte della sua sensibilità che sa inventare e non semplicemente reinventare. A costo di scontentare le masse di adoratori del prog che ora lo sostengono e lo osannano.
Setlist:
Luminol
Drive Home
The Pin Drop
Postcard
The Holy Drinker
Deform to Form a Star
The Watchmaker
Index
Insurgentes
Harmony Korine
No Part of Me
Raider II
The Raven That Refused to Sing
Bis:
Radioactive Toy
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