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R Recensione

5/10

The Boxer Rebellion

Union

The Boxer Rebellion, ovvero del sottile confine tra l’emergere e lo scomparire. Un disco promettente nel 2005 – Exits, per la Poptones del dopo Creation –  poi l’abisso dell’abbandono da parte di un’etichetta al collasso e l’irta parete da scalare per ritrovare i riflettori. Con buona volontà, alimentata anche dall’apprezzamento di nomi del calibro di Editors, Lenny Kravitz e Gary Numan,  i quattro musicisti non smettono di lavorare e, nel gennaio 2009, mettono a disposizione (autoproducendolo) il loro secondo album su i Tunes. Union, questo il titolo del lavoro, diviene un piccolo caso: il singolo Evacuate trascina il disco al quarto posto della top 100 ed al secondo della “alternative charts” (oddio, la schifezza del settorialismo). Solo l’inesistenza di una copia fisica del prodotto impedisce ad Union di entrare nella classifica ufficiale UK, ma il titolo di Best Alternative Album 2009, dispensato da i Tunes, è suo. Ovvio che allora arrivi anche il CD, con tutto il suo bagaglio di responsabilità tipicamente connaturate alla fenomenologia dell’”un fenomeno al giorno” così squisitamente british.

Ed eccolo, Union. Un concentrato di new wave e alt-pop inglese, però americano, in confezione arena da concerto, però di nicchia. Sì, un disco astutamente in bilico sull’orlo del bipolare mondo rock, palesemente pretenzioso nella sua dimensione epica da grandi platee,  drammaticamente condannato però (non per portare sfiga) ad un’esistenza ai margini dell’attenzione di massa. E ci mancherebbe. Come se ci fosse ancora qualcosa da riempire, in un filone saturo da almeno un lustro. Se non sei il geniaccio, lì dentro, sei uno dei tanti. E lo dico senza spregio. Anche perché, a ben vedere, Union è un disco relativamente compatto, senza rocambolesche cadute di stile, che racchiude in sé alcune intuizioni melodiche davvero ficcanti, esecuzioni precise ed arrangiamenti in massima parte ben studiati, eleganti, armonicamente inattaccabili. Certo, senza rischiare un minimo tutto è più facile, ma tant’è.

L’apertura di Flashing Red Light Means Go si affida alla geometrica foga della batteria di Piers Hewitt, il cui lavoro allo strumento, da solo, alza di mezza tacca il valore dell’intero lavoro. È lui che sostiene un basso onesto ma raramente significativo (risalta il gioco sui levare in Move On) ed una maglia chitarristica spesso appiattita dentro soluzioni distorte e riverberate, mai abbastanza originali da superare ingombranti ed evidenti modelli (intrecci di ritmiche insistite, nella recente e rigorosa interpretazione Interpol, accordi reiterati ed aggressivi a là Strokes, arpeggi morbidi, efficaci quanto semplici come da tradizione chitarristica anglosassone, saturazioni a metà via fra Stone Roses e sinfonismo nordico).

Difficoltà ad affrancarsi dai modelli che risulta ancora prepotente in un’ottica più generale: la voce di Nathan Nicholson (arrivato a Londra dal Tennesee, insieme con un po’ d’America) indugia tra forzature molto Molko (sì, scusate), vibrazioni calde, falsetti e linee melodiche rubacchiate qua e là a Coldplay, U2, Radiohead, Editors, Travis e si potrebbe andare avanti a lungo. Non mancano però i buoni episodi: Evacuate è il classico pezzo d’impatto, incalzante e sincopato, aperto melodicamente nel finale, sempre facile facile da recepire; Move on è arzilla nelle dinamiche e caratterizzata da alcuni buoni passaggi vocali; Forces avrebbe potuto essere un singolo efficace, melodia assassina e riff trascinante; Semi-Automatic si distingue per un bell’arpeggio abbarbicato su di una struttura dispari.

Non si riesce mai, in ogni caso, ad eludere una certa banalità ed uno spessore compositivo piuttosto modesto. Buono e pessimo trovano il loro incontro in These Walls Are Thin, un brano che non avrebbe nulla da invidiare alle migliori cose degli Editors, se un ritornello scialbo e scontato non arrivasse a rovinare tutto. Moscia per davvero è invece la parte centrale dell’album: a Misplaced (i Coldplay al rallentatore, con risultati che definirei patetici) e a  The Gospel Of Goro Adachi (sorretta da un’elettronica senza nervo) la palma di peggiori del lotto.

In sostanza, dunque, un album dalle pretese eccessive per i contenuti che è in grado di offrire. A dischi così serve del mordente. Se manca, tanto vale interessarsi d’altro. Al nome del gruppo, per esempio, visto che pare incomprensibile l’eventuale origine nel movimento anti-colonialista e anti-cristiano sviluppatosi in Cina a fine ‘800 (The Boxer Rebellion, appunto), moto sì rivoluzionario, ma alimentato da intolleranza xenofoba e caratterizzato da orrori indicibili. Preferirei allora, con humor ignobile più che anglosassone, pensare ad un banale episodio di rivolta canina domestica o agli improbabili dispetti di un motore BMW. Almeno, con tanta buona volontà, mi faccio due risate a denti stretti. E il disco diventa un po' meno inutile.   

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Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 2 voti.
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MinoS. 6/10
mintaka 6,5/10

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