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R Recensione

6/10

Djam Karet

The Heavy Soul Sessions

Il nome potrà risultare nuovo ai più, ma gli Statunitensi Djam Karet sono giunti al loro quindicesimo titolo. La band, formata nel 1984, ha costruito realmente una carriera “alternative”, congeniando una miscela dalla formula inedita di progressive sperimentale e Rock In Opposition, ben distinguibile da altre alchimie, ed è stata in grado di portarla avanti, con grande caparbietà ma anche con lo stimolo costante di aggiornarla di volta in volta, attraverso 25 anni di attività.  

Fortunatamente qui ci troviamo davanti ad una formazione sonora ben differente da quel proliferare fuori tempo massimo che si incarnò negli anni ’90 di gruppi che, volendo proporsi come dei duri e puri, hanno creduto di incarnare quegli ideali che Yes, Genesis, EL&P, King Crimson, Pink Floyd avevano perseguito (e già portato perfettamente a compimento) vent’anni prima. I Djam Karet sicuamente hanno una continuità con quella Sacra Stirpe di Magniloquenti Stilemi Sonori e anche per loro si ha la percezione sia che il tempo si sia fermato, sia che altri geniali generi musicali, meno legati a tronfi barocchismi, non siano nemmeno mai esistiti. Eppure in loro si rinviene un valore che va oltre il semplice senso di riproposizione: il loro percorso musicale li ha portati a stare alla larga da inutili romanticismi, assestandosi su sonorità decisamente più spigolose.

Di recente i Djam Karet hanno intrapreso una tournée negli USA e in Europa nella quale hanno cercato di presentare una summa della loro ultraventicinquennale carriera. Al ritorno negli States, la formazione ha deciso di immortalare alcuni dei brani chiave di queste esibizioni, eseguendoli nuovamente in studio e registrandoli in rigorosa presa diretta. The Heavy Soul Sessions è dunque, sostanzialmente, un “live in studio”, decisamente vitale e privo di qualsiasi rielaborazione o overdub. In questo album interamente strumentale si succedono principalmente composizioni del loro recente passato, come le magnetiche The Packing House e The Gypsy And The Hegemon dall’ottimo Recollection Harvest del 2005 o le magmatiche Hungry Ghost e The Red Thread da A Night For Baku del 2003, ma si torna anche indietro di venti anni con la mesmerica Consider Figure Three da Suspension & Displacement del 1991. Particolarmente significatico il titolo dell’unico inedito, Dedicated To K.C., che la dice lunga sull’amore verso la formazione di Robert Fripp. L’organo, il moog e il mellotron di Gayle Ellet e le chitarre di Mike Henderson disegnano simboli che sono da decenni codificati nella Storia della musica grazie ai portentosi arazzi sonori realizzati dai Padri Fondatori del Prog negli Anni ’70.

Eppure, sebbene il mondo intorno sia radicalmente mutato, una musica così ricca di dettagli e poco incline a guardare l’orologio, quando concepita e suonata con cuore, al di fuori da qualsiasi scopo di lucro o di mero business (l’album di esordio dei Djam Karet nel lontano 1986 si intitolava No Commercial Potential....), continua ad essere la benvenuta.

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