R Recensione

6/10

Premiata Forneria Marconi

L isola di Niente

A metà degli anni settanta la Premiata Forneria Marconi era in procinto di sfondare negli USA. Trasferitasi in pianta stabile in California, inserita nel giro dei grossi concerti e festivals all’aperto, spinta dallo stesso potente management di Peter Frampton (che di lì a poco diventerà famosissimo, stravendendo un suo album dal vivo tratto proprio dalle date di quel periodo), ammirata e rispettata dai colleghi musicisti per la grande perizia e resa strumentale, la band italiana sembrava avviata ad una sicura carriera internazionale di vertice.

Succedono invece alcune cose, la più controproducente delle quali è che dopo quattro mesi di lontananza da casa i ragazzi si fanno prendere dalla nostalgia (per Milano, pensa te…) e interrompono sul più bello il giro dei concerti (in cartellone con Frampton ma anche con Santana, Chicago…), rientrando inopportunamente in Italia. Dopodichè, essendo dei giovanotti responsabilmente e politicamente schierati, partecipano poco tempo dopo ad un raduno musicale in quel di Roma in favore dell’OLP palestinese.

Il fatto è che in America cospicua parte del business è in mano, da molto tempo in qua, a managers ed impresari di origine ebraica. L’eco di questo schieramento musical/politico romano arriva alle loro orecchie e ciò basta e avanza a dare l’abbrivio ad un processo di boicottaggio subdolo ma drastico nei loro confronti. La PFM è a quel punto “bruciata” per l’immenso e trainante mercato americano, scivolando progressivamente fuori dal giro che conta, per sempre.

Episodio romano a parte, l’errore marchiano fu quello di non rimanere ad oltranza oltreoceano, a suonare in giro come pazzi non fermandosi fino ad aver consolidato quel successo già evidente, ma ancora non radicato. Meglio ancora, si sarebbero dovuti mettere pure alla ricerca di un bel cantante (americano) di ruolo, carismatico e bravo come e più di essi, per colmare l’unica loro (grande) lacuna.

Un vero peccato, perché la giovane PFM era effettivamente un trascinantissimo e divertente act  dal vivo. Gli insegnamenti progressive anglosassoni, soprattutto di King Crimson, Gentle Giant e Genesis, pur molto palesi, venivano filtrati attraverso un’energia ed una solarità mediterranea spumeggianti, originali, convincenti. Il gruppo teneva inoltre una speciale voglia e capacità di variare a fondo gli arrangiamenti da tournèe a tournèe, con continue trovate strumentali, inserti neoclassici, siparietti solistici sempre diversi: decisamente un gruppo più efficace sul palco che in studio.

Lo dimostra anche quest’album scialbetto e mal prodotto, il loro quarto di carriera. Il gap di brillantezza fra le migliori produzioni anglosassoni del tempo e questa cosetta milanese è impietoso: suoni modesti e impastati, riverberi a capocchia, la potenza e la comunicativa dei cinque stemperata in compitini sufficienti ma quasi mai brillanti (si salvano le tastiere di Flavio Premoli). Ed in cima ad ogni qualsivoglia profilo critico, l’impietosa resa dei cantati.

Basti pensare che il ruolo di voce solista nel gruppo passò nel tempo via via dal violinista e flautista Mauro Pagani al chitarrista Franco Mussida a Premoli, per poi infine stabilizzarsi (ma non ottimizzarsi) sul batterista Franz Di Cioccio. Nessuno di questi grandi musicisti possiede in realtà voce idonea a livello professionale; ascoltate in prospettiva odierna, le performances vocali contenute in quest’opera suonano dilettantesche e quasi imbarazzanti.

La suite in apertura che intitola l’intero album esordisce in maniera magniloquente e spettacolare, con un lungo preludio di cori gregoriani sul quale piomba il riff di chitarra di Mussida, ben sostenuto dalla ritmica nella quale spicca subito l’allora new entry Patrick Djivas al basso. L’andamento roccioso del pezzo si stempera ben presto nei tipici pruriti crimsoniani, con sciabordio di mellotron e svolazzi di flauto, per poi ricostituirsi in un finale di nuovo eroico, intarsiato dagli stessi cori gregoriani dell’inizio. Bel brano, il migliore del lotto.

Il seguente “Is My Face On Straight” è cantato, in un insufficiente inglese, da Flavio Premoli. Sono peraltro a lui delegate tutte le partiture vocali più rockeggianti e grintose, mentre Francone Mussida si occupa di quelle più tranquille e melodiche, ma i risultati sono, come già spiegato, in ogni caso modesti.

La luna nuova” è il primo strumentale dell’album, vivace e tarantellato, che fa tanto mediterraneo e italiano: uno dei loro classici dal vivo, con grande incrocio di minimoog, ottavino, violino, basso e chitarra e non so cos’altro, fino al tocco finale di… controfagotto, che ormai gli strumenti tradizionali si erano esauriti.

Dolcissima Maria” è la ballata, tranquilla e melensa, con un finale allungato a dismisura a base di mellotron e rullatone sui tom, ma non è che la melodia del refrain se lo meritasse: tediosa.

Via Lumiere”, di nuovo solo strumentale, è l’episodio conclusivo: le voglie e le influenze del gruppo qui subiscono uno scarto, dai grandi nomi progressive nominati all’inizio si passa ad atmosfere molto più asciutte, tecniche e singhiozzanti nei loro tempi dispari, proprie del jazz rock allora in fase di boom grazie alle gesta della Mahavishnu Orchestra di John McLauglin e Billy Cobham.  Era questa in effetti un’ensemble di grandi virtuosi e quindi un naturale obiettivo per i ragazzi della PFM, strumentalmente più che svegli. Niente di speciale comunque la resa anche di questo pezzo.

Album che fatica a reggere il tempo, quindi. Il migliore ricordo della PFM lo si ha se li si è visti dal vivo: erano una bomba, ai tempi d’oro. A confronto, in studio sono poca cosa e qui si arriva solo alla piena sufficienza. È bello suonare il progressive e far correre le mani a dovere sugli strumenti, ma ci vogliono anche i Greg Lake, i Peter Gabriel, i John Wetton, i (galattici) fratelli Shulman degli incredibili Gentle Giant. Qui invece non ce n’è proprio di voci degne, e se ne sente profondamente la mancanza.

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Voto degli utenti: 7,1/10 in media su 17 voti.
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B-B-B 7,5/10
Lelling 7,5/10

C Commenti

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cthulhu (ha votato 9 questo disco) alle 12:50 del 13 ottobre 2008 ha scritto:

PFM

Non ho avuto la fortuna di vederli dal vivo comunque il giudizio sul disco mi sembra eccessivamente severo anche se non si può certo negare l'assenza di un cantante di ruolo.Vorrei sottolineare il salto di qualità del "sound" grazie all'ingresso di Patrick Djivas al basso anche se l'album non ha avuto lo stesso impatto di "Storia di un Minuto".Ottima comunque la recensione che svela molti aneddoti e da' un'adeguata contestualizzazione storica

dalvans (ha votato 6 questo disco) alle 15:28 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Tedioso

Mai piaciuto molto

andrefanti (ha votato 7 questo disco) alle 17:25 del 5 gennaio 2012 ha scritto:

insomma, 'la luna nuova' non è esattamente un pezzo solo strumentale, ma ammetto che le voci ne occupano poco più di un frammento. forse è anche il brano migliore, se non altro il più compatto, essendo la title track un po' troppo dispersiva e frammentata. condivido in pieno il giudizio sulle voci, un po' meno quello sulla produzione, peraltro non certo eccelsa. in complesso , un album da 7 , per un gruppo da 9

classicsor (ha votato 7 questo disco) alle 12:28 del 23 agosto 2013 ha scritto:

Penso che Dolcissima Maria, non è un brutto brano, non eccezzionale, ma comunque gradevole, per il resto un disco da 7 - 7,5... bella recensione

B-B-B (ha votato 7,5 questo disco) alle 22:38 del 28 giugno 2015 ha scritto:

Beh poca cosa non direi... i due precedenti album sono due capolavori, specialmente Per Un Amico. Su questo "L'Isola Di Niente", comunque, concordo sul fatto che fatica a reggere il tempo.