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R Recensione

7/10

Ulver

Childhood's End

 

Agli Ulver abbiamo visto così tante volte cambiar pelle, che è divenuto ormai quasi impossibile cogliere la loro sembianza primigenia, i loro tratti somatici originari. Sono dei “mutaforma”: lo abbiamo compreso presto. Il black metal degli esordi si velocemente trasformato in qualcosa d’altro, un qualcosa che a tutt’oggi non si è ancora definito univocamente. E forse risiede proprio in questa identità sfuggente, il fascino arcano degli Ulver. Abbiamo ascoltato la loro musica ibridarsi con l’elettronica più sperimentale (“Teachings In Silence”), con il trip-hop (“Perdition City”), con l’ambient mistico (“Shadows Of The Sun”), con il folk acustico (“Kveldssanger”), con il metal tecnocratico (“Blood Inside”), con il progressive atmosferico  (“Wars Of The Roses”). Li abbiamo visti perseguire evoluzioni talmente drastiche da non poterle ritenere possibili nell’unico percorso di vita di una band. Dopo tutto ciò, gli Ulver si sono voluti far immortalare in un DVD/Blu-Ray (“The Norwegian Opera House”), che cattura una performance magistrale praticamente sospesa fra innata propensione al rumore e insondabile pace ambientale, provando a mettere a fuoco, senza riuscirci del tutto, quello spirito inquieto che incarna la loro volatile essenza.

Così, questo spirito mai pago di soluzioni definitive, li spinge oggi a realizzare un album che include le cover di quelle canzoni che hanno infestato la gioventù diversamente sonica di Kristoffer Rygg, Daniel O’ Sullivan, Tore Ylwizaker e Jorn H. Svaeren: si tratta di brani tratti dal songbook di band (The Byrds, The 13th Floor Elevator, Jefferson Airplane, United States Of America, The Pretty Things, The Troggs, sono forse i nomi dei gruppi più conosciuti) che, nella seconda metà degli Anni ‘60, hanno contribuito a far divampare quel furore psichedelico che poi avrebbe incendiato, con esiti dissimili e lungo traiettorie differenti, l’intero arco dei Seventies. Ma davanti a questi brani, in modo insolito rispetto al DNA mutante che contraddistingue la formazione norvegese, gli Ulver scelgono di non imprimere un segno caratteristico capace di alterare la natura iniziale del repertorio: Rygg e sodali, fanno un passo indietro, ritenendo più importante trasmettere il senso di un epoca, distinta da una coincidenza dell’azione artistica e della presa di posizione politica e sociale in una prospettiva antropologica capace, attraverso il grido lisergico, di denunciare gli orrori della guerra e di affrescare il sogno colorato di un mondo migliore.

E così, accostandovi a “Childhood’s End”, rinunciate ad aspettarvi avanguardie sonore o trasfigurazioni elettroniche. Qui tutto rende tributo allo spirito dei Sixties: il gusto, gli intrecci sonori, le ritmiche, le amalgame vocali vivono di una luce antica, che però non ha smesso di trasmettere i suoi influssi fino alla Storia dei nostri giorni, anche se spesso svuotata del suo autentico significato. Gli Ulver hanno deciso di colmare questo vuoto. Il lavoro è interamente pregevole, anche se alcuni episodi più di altri risultano più rappresentativi di questa “interpretazione dal di dentro”: In The Past (dei We The People anche se poi è divenuta famosa la versione dei The Chocolate Watchband), The Trap (Bonniwell’s Music Machine), I Had Too Much To Dream Last Night (Electric Prunes), I Can See The Light (Les Fleur De Lys) sono i momenti che evidentemente hanno come scopo principale quello di omaggiare gli umori di un’era, rievocandone odori, suoni e impressioni: come se gli Ulver avessero preso la macchina del tempo per abbeverarsi direttamente alle sorgenti di un sentire musicale, attraversando oblii e memorie. Quasi che queste non fossero delle commemorazioni storiche, ma delle accorate descrizioni di quanto osservato dal vero in questo viaggio spazio-temporale. Bracelets Of Fingers (The Pretty Things), Today (Jefferson Aurplane), 66-5-4-3-2-1 (The Troggs), Magic Hollow (Beau Brummels) rispondono invece a quelle sollecitazioni sonore che in qualche modo sono già rinvenibili nell’esperienza propria degli Ulver: in questi pezzi si avverte la sensazione che se i Nostri fossero stati in circolazione già 45 anni fa, avrebbero con ogni probabilità prodotto composizioni esattamente di questo tipo. “Agnus Dei, Qui Tollis Peccata Mundi, Miserere”: è il corale intro di quella fantasmagoria rappresentata da Where Is Yesterday degli United States Of America, composizione che è probabilmente il punto di fusione delle due tipologie di cover che mi sono parse animare l’intero “Childhood’s End”: davvero un ponte fra passato e presente, uno di quei brani che ti auguri di ascoltare in concerto dalla viva voce di Rygg. E che qui da l’idea di accompagnare i titoli di coda.

Ecco cos’è “Childhood’s End”: non un semplice album di cover tirato fuori per riempire l’attesa che precede la realizzazione di un nuovo opus in studio e neppure un lavoro fatto di semplici suggestioni, ma davvero una cronaca in diretta di quanto accaduto oltre quattro decenni orsono, con la voglia di stupirsi durante questa narrazione. Di stupirsi e di stupire.

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C Commenti

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Utente non più registrato alle 14:05 del 15 giugno 2012 ha scritto:

Non ho ancora avuto la possibilità di ascoltare questa nuova fatica degli Ulver.

Posso senz'altro dire che trovo interessante e significativo che rendano omaggio ad alcune delle band psichedeliche più interessanti ma poco conosciute e/o misconosciute dell'epoca.

Un'operazione molto più credibile di quella di altri gruppi che magari si spacciano o vengono spacciati per originali, per delle novità...