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R Recensione

7/10

Sixcircles

New Belief

Per ammissione degli stessi artisti all’opera, l’esordio dei Sixcircles, “New Belief”, è un instant record scritto e registrato a distanza in appena tre mesi, pensato per catturare e fissare fedelmente su nastro i più recenti interessi musicali di Giorgio Trombino e Sara Bianchin: il primo, palermitano, proteiforme chitarrista dei death metaller Haemophagus (recentemente attivi con “Stream Of Shadows”, 2017) e dei blasonati stoner hero Elevators To The Grateful Sky (ultimo squillo studio, il buon “Cape Yawn” del 2016); la seconda, una vita nelle retrovie dell’hc veneto che più underground non si potrebbe, ultimamente assurta a buona popolarità come affascinante voce dei Messa (il cui secondo “Feast For Water” è di freschissima uscita per Aural Music). Vicinanza di background, dunque, ma anche la comune tentazione di sperimentare linguaggi differenti da quelli normalmente praticati: la curiosità della giovinezza fa poi il resto.

New Belief”, ci si intenda, non sconvolgerà nessuno: la sua forza non sta certo nell’innovazione (le ispirazioni artistiche sono persino, bontà loro, sbandierate con meticolosità) ma nell’elevata qualità media dei brani e nel bell’amalgama che si viene a creare tra i due protagonisti. Non tragga in inganno la rumorosa apertura acida, à la Black Angels, di “New Belief Begins”: il disco preferisce indugiare ben più a lungo negli anfratti di una psichedelia desertica, ambrata, ricca di speziature old school. Se l’apparato strumentale si conferma quasi sempre all’altezza della situazione (suona praticamente tutto Trombino: chitarre, basso, batteria, harmonium, synth, addirittura un’armonica nella carezza acustica agée di “Time To Erosion”), è la voce di Sara l’indiscutibile elemento aggiunto alla formula della band, qui ancora più che nei Messa: il paragone prossimo, per quanto abusato, è quello con Grace Slick (“Take Me To Your Desert” è la California più lisergica ed assolata), anche se la formula si concede spesso e volentieri delle buone deviazioni di percorso (i Black Mountain di “IV” in “Come, Reap”, le venature westernate nel mesmerizzante dark folk di “Sins You Hide”, l’incenso che si spande sul rituale velvettiano di “Late To Awake”). Due i brani particolarmente interessanti: il proto-doom tribale di “The Prison”, impreziosito dall’abrasivo solismo di Alberto Piccolo (compagno di Sara nei Messa e funambolico geometra de Glincolti), e il minimalismo organico di “Lavender Wells”.

Per essere stato assemblato in così breve tempo, davvero non male. Aspettiamo, con curiosità e interesse, un possibile e più strutturato sophomore.

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