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R Recensione

6,5/10

L.U.C.A.

I Semi Del Futuro

Per mancanza di spazio e di attinenza adeguati, le riflessioni che seguiranno avranno inevitabilmente un raggio d’azione limitato, ma non credo di sbagliarmi più di tanto se parlo del mixtape come del simbolo politico par excellence di questi decenni di anarchico post-modernismo – qualunque sia il dominio semantico sotteso all’impiego di un prefisso polivalente ai limiti dell’omnicomprensività (e, pertanto, dell’insignificanza). La valenza indirettamente sociale del mixtape sta nell’interpretare intelligentemente la funzione creatrice dell’ascoltatore del Nuovo Millennio e nel decrittare con efficacia l’incontrollata, irrefrenabile fluvialità del discorso musicale senso strictu. Di fronte all’evidenza dei fatti – non solo tutti possono suonare, ma sono ormai in grado di tirare su un disco dal nulla, pur nell’assoluta ristrettezza di mezzi – chi si pone dall’altra parte della catena di produzione, il fruitore, è stimolato a sviluppare delle tecniche che lo possano mettere in condizione di ascoltare quanta più musica e quanto più varia possibile senza, per questo, finire travolto dalla massa informe dei dati e degli input. Gusti personali e curiosità sono le bussole che possono favorire l’orientamento nei cosmi sconfinati di Bandcamp e Soundcloud: contatto e analogia i motori dell’espansione. Da soggetto passivo, l’ascoltatore diviene costruttore attivo. In tutto ciò, colui che sta alla fonte, l’artista, viene quasi ridotto a “prestanote”, esempio fra i tanti che rispecchia il diapason musicale di chi l’ha scelto.

L’ex Jollymusic Francesco De Bellis, cresciuto a pane, Detroit e Warp, è abituato tanto a fare, quanto ad ascoltare mixtape. Saltabeccando di blog in blog, per un lungo periodo ha fatto una luculliana scorpacciata di colonne sonore: apprendiamo che la sua preferita l’ha scritta Stelvio Cipriani, nel 1977, per il Tentacles di Ovidio Gabriele Assonitis – e come non innamorarsi di un brano come quello d’apertura, “Small Town Pleasures”, che attacca sulla falsariga della “Rain Dance” hancockiana, salvo poi deviare su orchestrazioni disco-swing vagamente fidenchiane (il Nico Fidenco di Porno Holocaust, s’intende)? Ma stiamo divagando. Il vero piacere di scoprire qualcosa, lo sostengo da sempre, sta nel condividerlo con qualcun altro. Anche De Bellis doveva pensarla così, se pensiamo che l’oggetto delle sue attenzioni e destinatario di memorabili miste fu, in questo caso, l’amico Luca. Il passo successivo si manifestò con il carattere di una conseguente illuminazione: perché non cominciare a sostituire ai pezzi altrui pezzi propri, caratterizzati da quell’apertura di orizzonti e da quella babele di linguaggi che popola i mixtape più avventurosi? In altre parole: perché non assemblare un mixtape composto esclusivamente da musica propria? Un post-mixtape, se la vogliamo mettere in questi termini. Un nastrone in cui l’identità del compilatore e del musicista si mescolano fra loro, sino a sfumare indefinitamente l’una nell’altra.

È questa, dunque, l’identità di “I Semi Del Futuro”, primo caratteristico full length dell’alter ego di De Bellis L.U.C.A. che esce, come i due splendidi 12” “Precipizio” (2013) e “Niagara” (2015), su Edizioni Mondo, una piccola etichetta di proprietà creata appositamente per dare una casa a pezzi che i club romani non avrebbero altrimenti saputo come introdurre nelle loro serate. Spina dorsale del disco è il concetto di creazione, che ruota attorno al complesso naturalistico del Circeo, già affrontato in alcune uscite minori degli anni precedenti – come “Laguna” di ROTLA, monicker del producer Mario Pierro (2014), “Dune” degli Studio 22, progetto di De Bellis con Luminodisco (2014) e “Selva” degli Odeon (2015). La musica de “I Semi Del Futuro” vive di una densità descrittiva particolarissima, atemporale, di inusitate evocazioni strumentali e di minuti, ma importantissimi dettagli. I synth fluorescenti di “In Principio”, che aprono le danze, potrebbero recare incisa una benedizione balearica di prima scelta, se non fosse per gli inserti mistici di acustiche ed armoniche ed il recitato di Lorenzo Profita. Il continuum con “Il Valzer Del Risveglio” è mirabile e riporta alla mente le sonorizzazioni plunderfoniche degli ultimi decenni, in cui la grana materica della strumentazione viene controbilanciata da perturbanti inserimenti esterni. La percussività di “Anni Verdi” viene accentuata dal libero girotondo dei bassi, che vanno ad incidere un tessuto quasi lounge: le sinestesie di “Niagara” si pongono invece a metà strada tra rāga, gamelan e una versione liofilizzata degli Aktuala. È una raccolta library di nuova generazione, “I Semi Del Futuro”, ma comunque sui generis, in quanto pervasa da una serenità interiore che, nei lavori dei maestri del genere, veniva spesso sacrificata in nome dell’eclettismo, della sperimentazione o del groove (come nelle sospensioni esotiche di “Nuovo Ordine... Equilibrio”). Il bilanciamento delle componenti è invece qui pienamente rispettato, anche nei pochi mantra folk-psych dotati di proprie linee vocali (“In The Sun”, per cui l’arrangiamento d’archi si curva inaspettatamente su armonie e salti di tonalità prima irraggiungibili).

Il mio brano preferito è quello che riassume anche il senso dell’intero lavoro: “Oggi, Domani, Sempre”. Lo scratch della puntina che corre sui solchi del vinile si mescola ai garriti dei gabbiani e all’incrocio di percussioni sintetiche e analogiche, dando vita ad un’ipnotica filastrocca la cui paternità sembra divisa a metà tra Riz Ortolani ed Egisto Macchi. “I Semi Del Futuro” è un disco che esiste sempre, indipendentemente dalla sua effettiva creazione. E, sebbene non tutto scorra fluidissimo (le faticose allucinazioni Peaking Lights di “Esodo”) e attorno al mondo della library e delle soundtracks si cominci a respirare un certo fanatismo di ritorno, il segnale lanciato da L.U.C.A. rimane di quelli davvero importanti. Attendiamo, con curiosità e impazienza, un ideale seguito.

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