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R Recensione

5,5/10

Melvins

Tres Cabrones

Nessuno, al di fuori degli esperti, è familiare con la denominazione di VY Canis Majoris. Trattasi, tuttavia, della stella più grande mai conosciuta ed analizzata, una smisurata ipergigante rossa con un diametro millequattrocento volte maggiore di quello solare. Similarmente, nessuno ha mai sentito parlare di Mike Dillard – forse nemmeno il diretto interessato si ricorda il proprio nome. Eppure stiamo parlando del primo batterista, e membro cofondatore, di un trio che, negli anni, abbiamo imparato ad ascoltare ed apprezzare: i Melvins. Non c'è nulla di strano, in tutto ciò. Se l'eccezionalità di VY Canis Majoris è ridimensionata dal suo coinvolgimento pressoché nullo nei destini del pianeta Terra (ed è secolarmente noto come all'uomo nulla importi di ciò che non lo tange quotidianamente), lo stesso Dillard può fregiarsi di una nomea a breve, anzi, brevissimo termine. Un titolo di cartone. Sarà pure stato lui ad erigere la baracca, ma altri ne hanno goduto i frutti e hanno tracciato le linee guida. Chi ha spalmato la calce sul primo mattone del Tempio di Salomone certo non può definirsi, nel senso comune, suo costruttore.

È passato poco più di un anno dall'esperimento Lite, con l'entrata del prezzemolino Trevor Dunn al contrabbasso e la scrittura dell'ottimo “Freak Puke”, che già King Buzzo rimescola da cima a fondo le carte. Ancora fuori Jared Warren e Coady Williams, due protagonisti della fase Big Business, ritorna Dale Crover – ma, questa forse la vera notizia, al basso (!) e non alla batteria. Indovinate un po' chi si siede dietro le pelli? Se credete non possa essere possibile, è cristallino che non conosciate abbastanza a fondo le contorsioni logiche del cervello di Roger Osborne. Trent'anni dopo l'inconsulta accozzaglia di suoni dei “Mangled Demos From 1983” (il nome convenzionale con cui sono state raccolte e catalogate, nel 2005, sotto Ipecac, le primissime incisioni dei Melvins), ecco che VY Canis Majoris, ops, pardon, il redivivo Mike Dillard torna a far mulinare le bacchette, in “Tres Cabrones”. La proporzione è diciannove a uno. Il che, for brevity's sake, significa semplicemente che l'entità astratta “band” taglia il traguardo del diciannovesimo full length nello stesso istante in cui Dillard, alla veneranda età di quarantanove anni, fa il suo esordio professionistico in formato “lungo”.

I “tre coglioni” – parole squisitamente loro... –, a questo giro, scelgono di raggruppare una tracklist che più bizzarra e demenziale non si può. E cioè: su dodici brani, vi sono tre incisi traditional, un pezzo già comparso in un recente split con gli Helmet, un altro in una compilation di varie ed eventuali, un altro ancora sul 7” “Gaylord” rilasciato nei mesi scorsi, quattro (tra cui una cover) in un EP del 2012, profeticamente intitolato “1983”. Subtotale: dieci. Cinque sesti dell'intero lavoro. Difficilmente, allora, si può parlare di “Tres Cabrones” come di un nuovo disco di inediti, sebbene comodità e necessità di economia spingano a farlo. I due momenti realmente “nuovi” dell'album sono anche, coincidenza?, i più lunghi. “Dogs And Cattle Prods” recita nel classico ruolo del travaglio psichedelico, nove minuti che aprono Black Sabbath, prima di sfumare ad oltranza in una brodaglia stoner-doom sulla quale scorrazzano feedback ed una surreale acustica blues. “I Told You I Was Crazy” (decisamente...) sembra, almeno per un attimo, un fosco downtempo per crooner diversamente abili: poi tutto, sulla scia di mortiferi riff in slow motion, rientra nella normalità (?).

Ci si pone, ora, la domanda: su cos'altro realmente disquisire? Di che cosa parlare? “Tres Cabrones” non offre chissà quali spunti di riflessione. Il ruolo di Dillard è sicuramente minoritario, nell'economia di un trio artificialmente ricostruito dal demiurgo Osborne: modesto il suo drumming nei frangenti lenti (che sono molti), non particolarmente esuberante quando l'acceleratore viene schiacciato. Nemmeno i suoi compari, tuttavia, brillano. “Walter's Lips” è una second take della vecchia “Walter”, a sua volta cover delle leggende hardcore west coast Lewd: tra power chord elementari ed indefinitezza di fondo, nulla da segnalare. “Stick 'Em Up Bitch” si appiccica ad un solo riff reiterato ad oltranza, prima di tramutarsi in una rielaborazione di “Fascists Eat Donuts” dei Pop-o-Pies. “Stump Farmer”, nella sua rocciosa brevità didascalica, rimane il miglior sentire. “American Cow” è il grunge dei Tad che riemerge a galla, ispessito da una notevole corazza doom. “Psychodelic Haze” sporca di allucinazioni in reverse un rifferama invero piuttosto standard: per quanto cafone e compiaciute, meglio le variazioni su tema dell'opener “Dr. Mule”, glam metal mordace e sardonico.

Non siamo così ingenui da non riconoscere quando i Melvins hanno voglia di scherzare, e quando invece di scrivere dischi di spessore. “Tres Cabrones”, sebbene l'altalena si stia facendo sempre più pronunciata col passare degli anni è, senza fallo, un divertissement.

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