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R Recensione

6/10

Metric

Pagans In Vegas

Tre sono le cose che, a dispetto degli anni che passano, non potranno mai cambiare in un disco dei Metric: l’accecante bellezza della chanteuse Emily Haines, la relativa mediocrità della scrittura musicale di gruppo, la sensazione che di doti per fare meglio (o anche solo diversamente) ce ne sarebbero in abbondanza. Restiamo umani (e critici): di tutto ciò che viene dopo “Old World Underground, Where Are You Now?” si potrebbe selezionare una mista di singoli brani, di perfette hit, così da andare a comporre il disco perfetto che il quartetto di Toronto ha preferito, invece, diluire in almeno tre lavori (“Live It Out”, “Fantasies”, “Synthetica”), tutt’altro che indimenticabili. Il sesto “Pagans In Vegas”, lungi dal fare eccezione, esacerba anzi le scelte e le tendenze musicali preponderanti nella cifra stilistica dei Metric da dieci anni a questa parte: è il full length più lungo da loro mai architettato (quasi cinquanta minuti, sette oltre “Synthetica”) e, senza dubbio alcuno, l’apice della riflessione socioculturale della Haines sulla condizione dell’individuo tra analogico (--> personalistico) e sintetico (--> di massa). Da un lato, a rimarcare il carattere androide dell’operazione, la fruizione dei singoli via via rilasciati è stata resa possibile solamente tramite Pagan Portal, un’app per iOS e Android sviluppata dalla stessa band: dall’altro è già stato annunciato per il 2016 un doppelgänger guitars-bass-drums only, con un’operazione di sdoppiamento mirata a valorizzare singolarmente le due facce della medaglia.

Atmosfere algide e synth a palate, dunque, per un “Pagans In Vegas” che – privo di quella leggera, matematica tensione bilanciatrice tra gli elementi, l’aspetto de facto più interessante delle prove precedenti – si assimila con una facilità straordinaria. Ricorre a più riprese, come già fatto ampiamente notare (ma è davvero impossibile non accorgersene…), il nume tutelare dei Depeche Mode: Emily sembra la versione riot grrl del Martin Gore di “Personal Jesus” in “Lie Lie Lie” (“If it happened it was meant to be / Got me a lobotomy for free / Now, I’m so sedated and serene / On the cover of your magazine”), laddove “For Kicks” incrocia magniloquenze new romantic e grattini indie rock (canadian style, of course) sul modello di “Precious”. È un gioco divertente e frivolo, ma da quando in qua i Metric non hanno mosso rivendicazioni, finanche con forza, in questa direzione? Per cui Emily non sarà mai Madonna, né Cyndi Lauper, né tantomeno Lady Gaga, ma può aspirare benissimo al ruolo di nuova Deborah Harris (“I’ve been on a thousand years too long / A thousand years too late for everything that’s wrong / Back and forth between the desert and the sea / Who I was and I will always be”: in “Too Bad, So Sad” ritornano i viaggi sabbatici in Argentina). Fascino e presenza scenica non smarriscono un’oncia di attrattiva nemmeno quando vengono a mancare le canzoni (“The Governess” pare una torch song da classifica americana processata attraverso i peggiori sequencer), quando il microfono passa al chitarrista James Shaw (bruttina la cold-wave di “Other Side”) o – come in “Celebrate” – quando la new wave cede il posto a ritornelli reiterati sino alla nausea e a tastiere che osservano da vicino l’eurodance.

Ad essere sommamente sinceri, qualche elemento di novità, in “Pagans In Vegas”, c’è: una rinnovata capacità di gestire durate più impegnative (il synth pop robotico, ma inaffondabile, di “Cascades”), il coraggio di fare a meno dell’onnipresente Emily (in una mini suite di otto minuti, “The Face”, che ondeggia fra epico retrofuturismo e inconsueti bordoni d’organo à la Stars Of The Lid) e, finalmente, un singolo stritola-dancefloor degno di questo nome (qualcuno si infastidirà per le backing tracks e i gorgoglii elettronici di “The Shade”, ma era almeno da “Sick Muse”, se non da “Monster Hospital”, che non si sentiva un brano così solido). Poca roba, certo, ma sufficiente per giustificare il mezzo voto supplementare.

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