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R Recensione

7/10

Moderat

II

Molto probabilmente è un dettaglio che in realtà non era stato pensato dal trio elettronico: una maschera perfettamente aderente, un’appiccicosa superficie di plastica che viene lentamente tolta, in procinto di manifestare l’essenza di sé stessi e, perché no, una naturalezza che viene raccontata invece con la più artificiale delle melodie, quella elettronica.

Nel secondo capitolo dei Moderat pervade costantemente un senso di tensione, di vuoto, di profondo. Così come i tuoni danno un preambolo ad una tempesta, così “The Mark” fornisce un interludio tetro, pronto ad esplodere in un brano la cui contraddizione è elemento portante e caratterizzante: “Bad Kingdom”. Il chiaro riferimento al sistema politico-sociale, completamente costruito su una superficialità deludente (“This is not / What you wanted / Not / What you had in mind”) contrapposta a percussioni animalesche e tastiere appiccicose. Il risultato è immediato, efficace.

Non manca l’attenzione per lo strumentale: la successiva “Versions” è una finestra sul retro di un edificio, tra rintocchi di percussioni e scansioni di voci che si conformano, si riflettono. L’intero tessuto musicale è sorretto da basse frequenze, stuzzicato da qualche tastiera più sottile. La seconda parte del brano è guidata da una dispersione più accentuata delle voci, cercando di sfuggire ad una struttura regolare e ripetitiva, giocando invece nel dettaglio.

Let In The Light” nasce come un bozzolo di voci filtrate e gusci di tastiere che si sciolgono temporaneamente nel ritornello, accompagnato da suoni lampeggianti che accompagnano l’ascoltatore tra onde di particelle elettroniche. Benché la struttura sfrutti gli stessi suoni, sono le infiltrazioni delle voci che differenziano la trama.

Ben diversa è invece “Milk”, il cui punto forte è proprio la ripetitività: in dieci minuti si ha l’aggiunta di nuovi suoni che si stabilizzano, si mescolano. La tempesta ha modo di evolversi in tutto il suo fascino: dalle onde minimaliste delle liquid-drums ai lampi di voci, alle picchiate delle percussioni ai venti affascinanti delle tastiere. Si ha, con il solo utilizzo di tecniche elettroniche, una rappresentazione realistica di un paesaggio naturale.

Therapy” rovescia i ruoli tra percussioni e tastiere: se in “Milk” prevalevano i tappeti elettronici, ora sono delle scansioni precise di percussioni a porsi in primo piano. Vi ricompaiono voci filtrate e colline insistenti di sintetizzatori. Nell’evitare la monotonia, a metà brano si ha una ricostruzione della trama musicale, ma il risultato ottenuto è poco convincente.

Il cantato di “Gita” si affianca nuovamente alle tastiere appiccicose di “Bad Kingdom”, in cui filtrano insistentemente le voci infiltrate, richiamando lontanamente gli Stateless in chiave dubstep. Ad esse si aggiungono le piogge di simil-xilofoni, mascherate in seguito dallo sfoltire della voce.

La parte restante del disco è introdotta nuovamente da atmosfere in cui le tastiere si inzuppano, si districano e avvolgono sui battiti di una lenta camminata: è “Clouded”, che lascia spazio ad “Ilona”, strumentale in cui la principale trama musicale ruota rapidamente su emissioni costanti di tastiere, nel mentre che una voce ingrossata richiama frammenti di sintetizzatori. La trottola elettronica si adagia lentamente su veli di tastiere più delicati e soffusi, quasi a riempire il vuoto rimanente, senza rinunciare ad una delicata malinconia.

La stessa è anche il filo conduttore per “Damage Done”, in cui il dolore consapevole della voce fluisce in percussioni liquide e sussurri sfuggenti, costantemente tamponate dal sintetizzatore. Il tutto avviene secondo una struttura crescente, una levitazione comunque scandita tra echi di chitarre e bruschi rimproveri elettronici.

L’ultimo strumentale è “This Time”, completamente immerso in reti elettroniche in cui i vocalizzi nuotano fra tastiere splendenti e crescenti percussioni, per poi tramontare in “Last Time”. La struttura è accelerata dalla batteria, dinamica: la voce riesce ad espandersi tra le continue rotazioni delle tastiere. L’apparente liberazione viene contrastata in una contorsione tra sintetizzatore e voce intensa, sviluppata in un crescendo in cui la batteria riesce a staccare le due componenti.

È evidente come il pregio indiscusso di alcune tracce sia proprio quello di effettuare una descrizione del naturale (o più in generale dell’istinto) attraverso l’artificiale. Fondamentalmente gli strumentali si apprestano meglio ad un ascolto distratto, senza rinunciare al fascino di alcuni (“Milk” su tutte, senza scordare “This Time”).

Il percorso graduale che vede lo staccamento della maschera trova qualche difficoltà in alcuni brani meno significativi (“Therapy”), riuscendo comunque a liberarsi in finali interessanti in cui le atmosfere sono più leggere, levitate (“Last Time”): la maschera è tolta.

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Voto degli utenti: 8,1/10 in media su 4 voti.
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hiperwlt 7,5/10
TanyaCn 10/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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nebraska82 alle 16:13 del 17 dicembre 2017 ha scritto:

Ottima recensione, complimenti!

ManuWR, autore, alle 18:26 del 17 dicembre 2017 ha scritto:

Grazie mille!

Dusk alle 15:34 del 22 aprile 2020 ha scritto:

Album simbolo, ho recentemente riguardato il live al Primavera Sound 2014, uno di migliori act elettronici degli ultimi anni. Peccato per lo iato - si spera - temporaneo...