ceo
White Magic
Eric Berglund, ossia ceo, con questo disco vuole comunicarci di aver raggiunto l’equilibrio nella propria esistenza tormentata (a suo dire, e fidiamoci) e un festoso senso di benessere, dopo anni di «pensieri bui e distruttivi» (cito da questa sesquipedale intervista, dove il ragazzo ne esce come un tipino ancora un poco instabile). Eric Berglund, in verità, è ceo assieme a Kendal Johansson, con cui ha scritto, registrato e prodotto “White Magic”, debutto sotto questo moniker – suggeritogli, sempre a suo dire, da una schiera angelica davanti all’oceano, e fidarsi stavolta è più arduo – dopo che Berglund era stato per anni la metà dei The Tough Alliance.
Sta di fatto che il senso di benessere arriva, assicurato. “White Magic” si muove in campate electro-pop candide e spumose, tra strati di tastiere aeree, ritmi sgargianti, piani balearici, vocals euforici, archi celestiali, chitarre acustiche morbide, tra zaffate di fumo bianco e un poptimism esuberante da dancefloor sulla spiaggia. Niente glo-fi o poetica della nostalgia, dunque: per ceo il party è qui ed ora, à la Delorean (“Illuminata” potrebbe uscire da “Subiza”), e somiglia a un battesimo, a una redenzione. La cosa, se si è nel mood giusto, può esaltare, favorendo tripudi danzerecci sui beat rimbalzosi e gli urletti ebbri di “Love And Do What You Will” o sul vitalismo debordante di “No Mercy”, lussureggiante di dettagli e rifiniture, tra cui il suono di spade sguainate già campionato in “Hidden” dai These New Puritans (diversissimi gli ambiti, però). Si è più vicini a un remix degli ultimi Sigur Rós, per dire.
E tuttavia il disco pare funzionare meglio dove si sda di meno e dove trattiene un filo di mistero e di aura fatata: “Come With Me”, guidata da un leitmotiv melodico che torna in “All Around” e “***” e stesa su un intreccio di samples vocali, è paradiso puro: le sue tastiere dense e fumose, solo mosse dal rotondo giro di basso, elevano ad alti livelli di catarsi, dove si gode, con Moroder, Air France, Jarre e pochi altri. Idem per la title-track, che parte dai Chemical Brothers per poi mimare un’esplosione di dance ibizenca, con tanto di chitarrino classico che arpeggia farfallone (Jam & Spoon!); ma poi il pezzo implode in bizantinismi house ipnotici e manieristici. Dal festone al gioco di enigmistica: momento centrale del disco.
Di questo benessere contagioso, purtroppo, va detto che, come vuole la vulgata sulla felicità, dura poco, pochissimo, neppure mezz’ora, includendo una pesa outro filastroccante e un interludio dal sapore rococò (“Oh God Oh Dear”). Troppo poco: ripiombare negli abissi è più che probabile. Peccato: qualche numero in più e la magia bianca di ceo avrebbe incantato davvero.
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