M83
Saturdays = Youth
Troppo facile inquadrare questo 2008 come annata di mero revival degli ‘80s. Talmente facile da risultare valutazione approssimativa e, forse, poco meditata. Quel che in realtà sta avvenendo, al di là degli spesso barbarici tentativi di sodalizio fra muscolatura punk-funk ed eruzioni etno-wave alla “Remain In Light”, è piuttosto una interiorizzazione di quel decennio, dei suoi risvolti meno apparentemente “arty” e più sibillinamente "pop". Un atto d’amore sotto il quale, a ben vedere, si cela il rammarico per un presente “vincolato” e non più perfettibile, sedotto dal pluralismo di voci, alla disperata ricerca di un baricentro emotivo.
Già coccolata nell’abbraccio edonistico e “new orderiano” dei Cut Copy, poi coperta da un pigiamino di saliva nell’electro-lounge di Sebastien Tellier, la decade incriminata risplende ora nello sguardo lucente e archetipico dello shoegazer Anthony Gonzalez, la cui creatura M83 sembra, oggi più che mai, imboccare il sentiero impervio della rievocazione nostalgica, non mediata da ironia nè ansia di revisionismo. Eppure – lo si diceva poc’anzi – l’equazione “anni ‘80=giovinezza” non è mai stata così ben formulata e colta nel suo significato più elevato. Forse perchè, come nel dormiveglia, ogni gesto appare trasfigurato, identico a se stesso eppure morfologicamente "diverso".
Perso per strada il collega Nicolas Fromageau, Gonzalez quadra i contorni laddove prima era norma lasciar sbrodolare i suoni (“Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts” del 2003), acquieta per un istante i fantasmi di Air e My Bloody Valentine e, nel rievocarne altri - ben più ingombranti all’occhio di molti -, si appropria delle tecniche produttive dell’epoca, curando ogni suono in modo quasi maniacale. Che la magnificenza del risultato sia anche merito di due maghi dello studio come Ken Thomas (già alla consolle per Cocteau Twins, Suede e Sigur Ros) e Ewan Pearson (pure i Rapture nel suo curriculum) pare un’ovvietà, ma nulla toglie alla portata della visione dell’artista francese.
“Saturdays=Youth” non è solo sublime arte di calligrafia, né stanco ibrido pop-shoegaze, bensì veglia incantata a fronte di quell’incontrastato regno dell’“everything was possibile” che ci fissa, attraverso gli sguardi teneri degli adolescenti in posa davanti all'obiettivo: bellissimi nel loro essere semplicemente immobili. La prodigiosa “Kim & Jessie” (singolo dell’anno?) è tutta per loro e non può essere altrimenti, dato il suo incessante vagare fra i migliori A Flock Of Seagulls e l’urlo delicato dei Tears For Fears. Guai però a dire che questo sia l’unico momento epocale del disco, giacchè si farebbe un torto ad almeno altri sei capolavori assoluti, fra le migliori pop song scritte e prodotte da dieci anni a questa parte.
In primis l’elegia introduttiva “You, Appearing” che, complici i tasti di un pianoforte di cristallo e falsetti a cuoricini, apre la porta al dream-pop e prepara l’ascoltatore al tuffo nei ricordi. Seguono a ruota: il titanismo adolescenziale di “We Own The Sky”; una “Graveyard Girl” che diluisce a suon di liquidità chitarra-tastiere la solarità indie-pop dei primissimi Primal Scream e, a chiusura della “prima facciata” (obsoleto che sono…), il glorioso strumentale “Couleurs”, sunto e rielaborazione di gestualità e stilemi techno-pop d’antan.
È poi la splendida voce di Morgan Kibby dei Romanovs (l’Elizabeth Fraser della situazione) a dare il tocco finale a gemme come “Skin Of The Night” e “Up!”, entrambe condotte con rinnovato stupore e carisma in un gioco di chiaroscuri a metà fra i “Gemelli Cocteau” e gli altrettanto seminali New Musik. Ed è ancora il suo timbro angelico a cesellare i cori di “Highway Of Endless Dreams” e “Dark Moves Of Love”, unici momenti in cui vengono esplicitamente tirati in ballo Slowdive e il resto della “compagnia fissascarpe”.
Gli undici minuti di modulazioni simil-ambient “Midnight Souls Still Remain” sono gli ultimi bagliori d’un sole settembrino riflessi sulla tela di “Oxygene” a firma Jean-Michel Jarre: epilogo, fra i tanti possibili, di questo viaggio a ritroso (ma mai così attuale) nella coscienza collettiva di un’adolescenza “ideale”, ancora senza identità. Forse soltanto sognata.
“Chi sono io?” era la traccia del tema affidato ai cinque studenti protagonisti di quel “The Breakfast Club” (bravo Pitchfork, ti sei ricordato di John Huges) la cui sublime drammaturgia sembra infiltrarsi in ogni cellula di “Saturdays=Youth”. Qui la prospettiva sembra ribaltata, dato che gli “otto personaggi in cerca d’autore”, presumibilmente incapaci di trovare una risposta, sembrano porre l’interrogativo a noi che li osserviamo. Una cosa però è certa: Gonzalez non cerca di deriderli o, peggio, di redimerli (da cosa poi?), ma si schiera al loro fianco, celebrando in musica la loro fragile, pensosa leggerezza. In fondo, sono un po’ lo specchio di molti di noi, di come eravamo o avremmo voluto essere. O di come siamo ancora, nonostante tutto: malinconici, indifesi e per questo splendidi. Esattamente come questo disco.
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