Chemical Brothers
We Are The Night
C'è poco da fare: trovarsi a recensire un disco dei Chemical Brothers, anche nell'annus domini 2007, vuol dire cimentarsi con un gruppo dal passato ingombrante. I fratelli chimici, nel bene o nel male, sono stati, poco più di dieci anni fa, i principali alfieri dell'integrazione tra due mondi: quello dell'indie rock e quello dei club. Che i semi fossero già stati depositati dalla cruciale scena di Madchester poco importa: furono i Chemical Brothers a portare a definitivo compimento l'opera, creando un ponte tra due mondi lontani e spesso considerati antitetici.
Erano gli anni del magro ragazzo grasso e del prodigio sbucato dal grasso della terra, di Dig Your Own Hole e del deraglinate pot pourri musicale denominato big beat: breakbeat grassi e campionamenti “rock” come se piovesse. Una meteora consumatasi nel giro di pochi anni. E poco prima che la galassia big beat venne risucchiata in un insesorabile buco nero i fratelli chimici giocarono d'anticipo, fiutarono l'aria e sparigliarono il mazzo: era il 1999, l'anno di Surrender.
Ritorno ad un techno sui generis, suggestioni progressive house e salto a piè pari in un ipnotico bagno post-psichedelico: fiori all'occhiello, l'inno tamarro ma di immediato impatto Hey Boy Hey Girl e la comparsata di Noel Gallagher in Let Forever Be.
Il fiuto nel saper cogliere l'avvicendarsi dei trend musicali, la capacità di rimanere al guado proponendo un'elettronica un po' bastarda e difficile da incasellare, la scaltrezza nello scegliere gli invitati giusti per il banchetto musicale imbandito di volta in volta: questi i tratti salienti dei Chemical Brothers post big beat che ritroviamo in tutte le produzioni successive a Surrender. Gli assi nella manica che hanno consentito a Rowland e Simmons di rimanere a galla in un regno usa e getta come quello elettronico.
Il copione è puntualmente rispettato anche in questo We Are The Night: senza perdere di vista le radici i fratelli chimici mantengono comunque le antenne drizzate pronti a captare i nuovi fattori di coolness. Ed è così che la titletrack procede spedita e meccanica sulle autostrade di silicio asfaltate dai Neu!, suonando a tratti come una revisione acida degli scozzesi Fujiya & Miyagi. E non può mancare l'electro funk in odore di LCD Soundsystem, in una Do It Again che resiste minimale per un paio di minuti per poi cedere pian piano a sopite tentazioni urban. Spunti di italo disco e suoni old school fanno la loro comparsa su A Modern Midnight Conversion.
Per assurdo i fratellinili li preferiamo alle prese con riletture sporche di suggesioni trance: come nelle progressioni sporcate di breakbeat di Saturate e sul treno intergalattico di Burst Generator. Niente di straordinario, ma l'impressione è che qui i Chemical Brothers tornino a giocare in casa.
Il pezzo pregiato però lo regala, ancora una volta, la comparsata di lusso: non quella dei nu ravers (?) Klaxons, sepolti in una coltre di layer sonori new wave, non l'hip hop finto dadaista di Fatlip, e nemmeno la loffa ballata affidata alla voce del nu folkster Willy Mason.
No, la gemma arriva con The Pills Won't Help You Now, per gentile concessione dei meravigliosi Midlake: la voce di Tim Smith svolazza eterea e maestosa sul soffice tappeto di feedback sussurrati e di carillon luccicanti amorevolmente cucitogli addosso dai due fratellini.
Troppo tardi per far decollare un disco che convince solo a tratti. Abbastanza però per animare qualche compilation estiva e per attendere con ansia la prossima uscita ufficiale del gruppo Texano. Per quanto riguarda i fratelli chimici, invece, non resta che ricorrere all'odiosa rimandatura a Settembre.
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