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R Recensione

7/10

Moses Boyd

Dark Matter

Un giro completo attorno al sole, un bagno nel Tamigi, scrollarsi l’umidità di dosso sulla pista del Plastic e poi via, verso una bad Manchester che fu. In un mondo nuovo, è già venuto il tempo di fare un ulteriore passo avanti e spostare più in alto l’asticella dell’ambizione. Per l’esordio solista a suo nome, a ben vedere nient’altro che un obbligo formale, il batterista Moses Boyd (proprio lui: Binker & Moses, Moses Boyd Exodus, ventotto anni appena e già turnista al servizio di tutti) trascina il nuovo jazz londinese dove ancora non era stato: oltre le rivendicazioni particolari e i rimescolamenti di linguaggi ed esperienze artistiche, verso una rinnovata dimensione da club. Se la variopinta scena della capitale britannica ha già saputo rinnovare la pluridecennale tradizione del bop e della black music di qua e di là dell’oceano in una sintesi peculiare che unisce ibridazione e politicizzazione, l’evoluzione immediatamente successiva non può non essere quella di moltiplicare le faglie di convergenza, i punti di contatto fra la nuova scuola e l’ultimo grande sommovimento culturale ad essa precedente, quello della neo-psichedelia acida dei primi anni ’90.

A nascere dall’esperimento è un flessuoso ibrido, “Dark Matter”, che, pur nel suo sporadico soffrire i postumi di una bipartizione stilistica ancora troppo rigida, inanella già alcune delle migliori invenzioni sentite nell’ultimo lustro. In particolare, i primi tre pezzi, interpretabili come una rivisitazione personale della lezione della Londra contemporanea, sono un’autentica colata d’oro puro: dalle stroboscopiche roboanti melodie da rave tutte sincopi fusion e sinestesie d’ottoni di “Stranger Than Fiction” (ai sax tenori Michael Underwood e Nubya Garcia, mentre la tromba lynchiana con sordina è cortesia di Ife Ogunjobe: praticamente dei BADBADNOTGOOD al tempo del new radicalism nero), al devastante ottovolante afrobeat di “B.T.B.” e all’implacabile groove jazz hop di una “Y.O.Y.O.” che carbura tra lascivie exotica ed esplosioni elettriche (Artie Zaitz alla chitarra disegna due assoli che riescono nell’impresa di cancellare i fuochi d’artificio di Mansur Brown e far passare in secondo piano l’estrosità di Shirley Tetteh). Da qui in avanti comincia a subentrare l’elemento più propriamente danzereccio, un tentativo iniziale di mettere in comunicazione, tramite la scelta oculata degli ospiti vocali, istanze grime e radici post-garage: molto buona “Shades Of You”, officiata tra rimbalzi gommosi dalla dizione nitida di Poppy Ajudha, mentre sono un filo troppo chiassose e scentrate le scartavetrature breakbeat sul viscerale flow di Steven Umoh aka Obongjayar in “Dancing In The Dark” (ricompare il sodale Binker Golding al sax) e “Nommos Descent” offre un’inedita via di fuga drum’n’jazz alle calde inflessioni soulish della voce di Nonku Phiri.

Solo sul finale, splendidamente coronato dagli otto minuti e mezzo di “What Now?”, i due universi sembrano entrare pienamente in comunicazione: sembra di ascoltare un madrigale post-trip hop su beat sintetici per i tremolanti arpeggi in slow motion della chitarra di Zaitz e l’incontenibile flauto di un Underwood versione Tenderlonius. È un grande pezzo, ma è al contempo solo un’anteprima di ciò che, con maggiore sgrossatura strutturale, avrebbe potuto essere “Dark Matter”. Siamo solo all’inizio: per il capolavoro, l’ennesimo, è solo questione di tempo.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 18:50 del 2 giugno 2020 ha scritto:

Anche qui, pienamente d'accordo, pure sul voto e sulle aspettative.