Moses Boyd
Dark Matter
Un giro completo attorno al sole, un bagno nel Tamigi, scrollarsi lumidità di dosso sulla pista del Plastic e poi via, verso una bad Manchester che fu. In un mondo nuovo, è già venuto il tempo di fare un ulteriore passo avanti e spostare più in alto lasticella dellambizione. Per lesordio solista a suo nome, a ben vedere nientaltro che un obbligo formale, il batterista Moses Boyd (proprio lui: Binker & Moses, Moses Boyd Exodus, ventotto anni appena e già turnista al servizio di tutti) trascina il nuovo jazz londinese dove ancora non era stato: oltre le rivendicazioni particolari e i rimescolamenti di linguaggi ed esperienze artistiche, verso una rinnovata dimensione da club. Se la variopinta scena della capitale britannica ha già saputo rinnovare la pluridecennale tradizione del bop e della black music di qua e di là delloceano in una sintesi peculiare che unisce ibridazione e politicizzazione, levoluzione immediatamente successiva non può non essere quella di moltiplicare le faglie di convergenza, i punti di contatto fra la nuova scuola e lultimo grande sommovimento culturale ad essa precedente, quello della neo-psichedelia acida dei primi anni 90.
A nascere dallesperimento è un flessuoso ibrido, Dark Matter, che, pur nel suo sporadico soffrire i postumi di una bipartizione stilistica ancora troppo rigida, inanella già alcune delle migliori invenzioni sentite nellultimo lustro. In particolare, i primi tre pezzi, interpretabili come una rivisitazione personale della lezione della Londra contemporanea, sono unautentica colata doro puro: dalle stroboscopiche roboanti melodie da rave tutte sincopi fusion e sinestesie dottoni di Stranger Than Fiction (ai sax tenori Michael Underwood e Nubya Garcia, mentre la tromba lynchiana con sordina è cortesia di Ife Ogunjobe: praticamente dei BADBADNOTGOOD al tempo del new radicalism nero), al devastante ottovolante afrobeat di B.T.B. e allimplacabile groove jazz hop di una Y.O.Y.O. che carbura tra lascivie exotica ed esplosioni elettriche (Artie Zaitz alla chitarra disegna due assoli che riescono nellimpresa di cancellare i fuochi dartificio di Mansur Brown e far passare in secondo piano lestrosità di Shirley Tetteh). Da qui in avanti comincia a subentrare lelemento più propriamente danzereccio, un tentativo iniziale di mettere in comunicazione, tramite la scelta oculata degli ospiti vocali, istanze grime e radici post-garage: molto buona Shades Of You, officiata tra rimbalzi gommosi dalla dizione nitida di Poppy Ajudha, mentre sono un filo troppo chiassose e scentrate le scartavetrature breakbeat sul viscerale flow di Steven Umoh aka Obongjayar in Dancing In The Dark (ricompare il sodale Binker Golding al sax) e Nommos Descent offre uninedita via di fuga drumnjazz alle calde inflessioni soulish della voce di Nonku Phiri.
Solo sul finale, splendidamente coronato dagli otto minuti e mezzo di What Now?, i due universi sembrano entrare pienamente in comunicazione: sembra di ascoltare un madrigale post-trip hop su beat sintetici per i tremolanti arpeggi in slow motion della chitarra di Zaitz e lincontenibile flauto di un Underwood versione Tenderlonius. È un grande pezzo, ma è al contempo solo unanteprima di ciò che, con maggiore sgrossatura strutturale, avrebbe potuto essere Dark Matter. Siamo solo allinizio: per il capolavoro, lennesimo, è solo questione di tempo.
Tweet