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R Recensione

5/10

Orphaned Land

All Is One

Da specificità a trademark. Lapidario quanto basta, ma efficace. Basterebbe l'inciso, e la sostanziale ripresa dell'analisi condotta a suo tempo su “Heritage” degli Opeth – e sulla snaturata metamorfosi che aveva travolto uno dei gruppi di punta del mingling metallico anni '90 – per catturare l'essenza di “All Is One”, quinto disco degli israeliani Orphaned Land. All sono, ancora una volta, le tre principali religioni monoteistiche, in un sermone sull'unità e la pacificazione delle menti martoriate e degli spiriti in fibrillazione della fascia mediorientale che sta assumendo, oramai, le fattezze dell'elegia moralizzante. Il messaggio (che, scorporato dal contesto in cui è nato, perde la propria intrinseca efficacia) ha subordinato ormai, alle proprie esigenze, tutto il resto. Per meglio capirlo, partiamo da un elemento quasi collaterale. La scorsa primavera, una manciata di mesi in anticipo rispetto alla release del disco, il cantante Kobi Farhi ha girato gli Stati Uniti con una performance acustica in proprio, intervallata da ampollosi incisi discorsivi sul concetto di “unità culturale” e di come questa può essere realizzata tramite la tangente musica. Se l'iniziativa, presa di per sé e depurata dalla sovrastruttura geopolitica (non si dimentichi mai nel sottotesto – impossibile farlo, del resto – la nazionalità dei musicisti), rimane comunque lodevole, nel contempo testimonia di un accresciuto status sociale che fa a pugni con la forma, radicale e coraggiosa, entro i cui limiti un tale messaggio si comunicava.

Altro che all is one: delle due l'una. Così capita che il comeback degli Orphaned Land, a tre anni dal voluminoso concept di “The Never Ending Way Of ORWarriOR” (il distacco di quest'ultimo dal precedente, capolavoro, “Mabool”, era doppio), sia un lavoro contenuto nel minutaggio e nella prospettiva, ma non nelle ambizioni. Livellando le asperità e ripulendo le fibre più granulose del proprio suono, parallelamente il quartetto di Petah Tikva, per l'occasione accompagnato da un numero veramente pantagruelico di esterni, lavora di sovraccarico sull'elaborato incastro di armonizzazioni e arrangiamenti che, da sempre, costituisce il punto forte della proposta. Figlio del procedimento è un prodotto innocuo: per come suona, per quanto suona, per le nuances che sceglie a discapito di altre. Divelti quasi integralmente la radice death ed il cantato in growl, che riemergono tra le chitarre insolitamente rifrangenti di “Fail” quasi come contentino alla propria biografia e allo zoccolo intransigente di appassionati (sfilando, inevitabilmente, fuori luogo), gli Orphaned Land del 2013 sono un gruppo nostalgico e romantico, placido e sentimentale, finanche scontato. “Brother” è la ballata in minore incubo di ogni metalhead, con grande svolazzo d'archi, acustiche e piano a braccetto in un'avanzata struggente e patetica ed immancabile assolo costruito sul pistone melodico del brano: troppo facile. Troppo facile è anche riciclare bouzouki, handclappin' e cori femminili – ridoppiati da potentissimi riff oriental-heavy –per la title-track, con un espediente che riporta alla mente “Birth Of The Three (The Unification)”, strepitosa opener di “Mabool” (e per i dislivelli nell'aggettivazione, si intuirà che i risultati erano ben diversi). Così come non basta certo elettrificare il desolato klezmer di “Let The Truce Be Known” (profluvio di scale di quinta, vibrato interpretativo, contrappunto di violini, addirittura una cassa dritta in coda) per rievocare quelli che sembrano, davvero, i fasti d'un tempo.

Si torna, così, all'assunto iniziale. Gli Orphaned Land sono assurti a – giusta – fama per l'intuizione, geniale, di riplasmare il folk della propria terra attraverso un'altra tradizione, estrema, d'oltreoceano. Nello speciale sul metal del Nuovo Millennio di qualche anno fa, lo chiamavamo oriental death doom, con quell'ansia di sintesi a “pila” tipica di certa critica. Già detto del death, perso per strada il doom ancora tempo addietro, non rimane che quell'”oriental” sul quale confluiscono tutti gli steroidi di una scrittura troppo deficitaria. Il calco sulle origini e l'insistenza sulla strumentazione indigena, non più assorbiti in un crossover armonioso e a tratti spregiudicato, rasentano lo stereotipo. Evidente è la povertà di “Shama'im”, danza sinfonica coronata da un trionfale, inascoltabile bel canto: “Children” scivola verso un melenso prog rock orizzontale e lineare (dalla regia suggeriscono “wilsoniano”...), quasi una salmodia intagliata da inserti strumentali di ogni tipo e presa per un braccio da un assolo hard (arena) rock; “Through Fire And Water” lambisce la più sfrontata pacchianeria epic a doppio vocalismo (pare di avere di fronte i Nightwish...), segmentandola con l'ennesimo inciso etnico. Poco, davvero poco sembra salvarsi dalla furia del disfacimento: sicuramente “Freedom”, con le chitarre elettriche che fremono, serpeggianti, disegnando arabeschi di grande continuità espressiva frammezzo ad arpeggi acustici e flauti di Pan; bene anche lo storto incupimento di “Our Own Messiah”, accentuato dalla drammaturgia di Farhi e da un'intera sezione, centrale, di irrequietezza dark-prog.

Piaceranno a molti, questi Orphaned Land “perbene”. A molti, ma non a noi, che abbiamo ascoltato all'epoca “Mabool”, e ben conosciamo la differenza tra rivoluzionario e mestierante della rivoluzione...  

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