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R Recensione

7/10

King Gizzard & The Lizard Wizard

Infest The Rats' Nest

…e figurarsi se a quei matti dei Gizzard poteva non venire in mente, per la loro quindicesima uscita lunga in sette anni di attività, di scrivere un disco thrash metal old school. Per meglio dire, anzi, di isolare tutta una serie di suggestioni thrasheggianti più volte richiamate in una lunga serie di precedenti discografici (due su tutti: “Nonagon Infinity” e “Murder Of The Universe”) e di costruirci sopra un concept eco-sci-fi. Il massimo dell’inattualità per il massimo dell’attualità. Farebbe sorridere e si sarebbe tentati di interpretarlo come l’ennesimo scherzo, ma l’operazione, per quanto situazionista, è serissima: gli ammonimenti pungenti del blando “Fishing For Fishies” si corazzano d’acciaio nei rombi di tuono di “Infest The Rats’ Nest”, apocalittici anatemi anticapitalisti (trasparente la metafora dei ratti, eloquentemente assunti a bersaglio di un recente sparatutto prodotto dalla stessa band) che, al centro della narrazione sull’ecocidio dell’Antropocene, riportano le responsabilità di chi detiene le chiavi della produzione economica…

…e figurarsi se, per l’occasione, a quei matti dei Gizzard sarebbe bastato riesumare produzione e atmosfere del 1983. Nossignori: per utilizzare un termine caro ai giovani e meno giovani nutriti di post-ironia internettiana, “Infest The Rats’ Nest” è un disco gravido di layer, qualcosa che in ogni istante sembra ciò che non è (o, almeno, non completamente). Non così semplice è, pertanto, isolare le singole componenti di ogni brano – fatta eccezione per la sola, caciarona, non indimenticabile “Organ Farmer”. In un delirio di sezioni in tapping, il singolo di lancio “Planet B” (qui in una versione leggermente differente da quella resa precedentemente disponibile) deraglia da qualche parte fra gli Anthrax di “Fistful Of Metal” e gli immancabili Metallica di “Kill ‘Em All”, reindirizzando però le coordinate del finale ad altezze NWOBHM. Le sorprese sono solo all’inizio. “Mars For The Rich”, il rantolo di un povero agricoltore costretto a rimanere su una Terra morente mentre i facoltosi sbarcano su Marte (Elon Musk anyone?), si sorregge su di un riff inequivocabilmente garage-surf, una frase presa di peso da “I’m In Your Mind Fuzz”. I contagi cronenberghiani evocati nella maestosa “Superbug”, che raffina le idee della vecchia “The Great Chain Of Being”, esplodono in un asfissiante pulviscolo blues-doom, come un “Vol. 4” alla maniera degli Sleep. Ancor più eterodosso è, poi, il trittico centrale “Venusian 1” – “Perihelion” – “Venusian 2”, incentrato sull’esodo verso Venere di un gruppo di ribelli: se della prima si ricorda l’inusuale incastro di accordi, la seconda inventa un sorprendente ritornello maideniano in una dimensione da mid-Slayer e l’ultima chiude le danze speronando lo stallone dei furono Motörhead lanciato a rotta di collo…

…sebbene, va aggiunto, il meglio debba ancora arrivare. Trattazione a parte merita la doppietta di chiusura, che racconta l’ingloriosa autocombustione in cui termina l’avventura dei terrestri venusiani (“Self-Immolate”), sprofondati poi all’inferno – fisico e metaforico – alla caccia dei super ricchi (“Hell”). “Self-Immolate” è il segmento più tecnico e brutale dell’intero “Infest The Rats’ Nest”, una volèe thrash in 15/16 stoppata sul nascere da un doppio solo batteristico, dove Stu Mackenzie modula il vocalismo alla maniera del Dave Mustaine di “Rust In Peace”. “Hell” aumenta ancora il contagiri, declinando con affilatezza chirurgica gli orientalismi chitarristici di “Polygondwanaland”: il punto esclamativo è un’outro teatrale (“Fifteen infantry paratroop into the propylene new scene / Hell’s where they wanna be / Infest the rats’ nest”) che riassume il senso dell’intera opera…

…e, forse, proietta definitivamente i King Gizzard & The Lizard Wizard all’interno di un più ampio discorso socioculturale, qualcosa che trascenda il solo disimpegno e riaffermi nuovamente la centralità della musica con le chitarre nella definizione e nella discussione di temi politici. Detto di un disco thrash metal per mano di sette schizzati australiani sembra inverosimile: ma non era forse meno inverosimile prevedere una parabola del genere ai tempi di “12 Bar Bruise”?

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 3 voti.
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motek 7,5/10

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