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R Recensione

6,5/10

The Mon

Doppelleben

Il motivo per cui mi sono un po’ stancato del doom, ma non ancora degli Ufomammut, sta nella segreta abilità del trio di Tortona di dosare gli elementi: il segreto di suonare (quasi) sempre lo stesso pezzo, ma con approcci e da prospettive di volta in volta differenti. La considerazione, saltando fuori più o meno ad ogni recensione del loro nuovo lavoro di turno, è ormai frusta, ma funzionale all’introduzione dell’argomento principe. I mulini a vento contro cui combatteva Don Quixote erano, probabilmente, i luoghi comuni: mai conosciuto nulla di più duro da buttare giù. Così, quando ho saputo che lo storico bassista Urlo avrebbe corso da solo con un intero LP a suo nome, l’associazione mentale automatica è stata quella che tutti avrebbero pensato: fiumi di watt twist sintetici ugole in fiamme distorsione distorsione distorsione. Grande invece la sorpresa sotto il cielo nero pece: stai un po’ a vedere che The Mon arriva dove la band non è ancora mai arrivata?

Difficile dire se i brani di “Doppelleben” siano rielaborazioni di idee inizialmente prese in considerazione per gli Ufomammut o se, piuttosto, rappresentino un’evoluzione coerente del pensiero musicale del singolo Urlo. V’è abbondanza di prove per sostenere entrambe le posizioni. Da una parte gli episodi synth-oriented (il Lustmord formato Lorenzo Stecconi in “Hedy Lamarr”, il tipico carillon minimal-goth in crescendo di “Hate One I Hate”) sembrerebbero il filo diretto più evidente con “Eve” e i due “Oro”, “Opus Primum” in particolare. Dall’altra, un’infilata di episodi che proprio non ci si aspetterebbe: l’industrial-wave su percussioni metalliche di “Blut” (tra Killing Joke e Nine Inch Nails), l’electro-sludge mantrico e scheletrico di “Relics” (le chitarre, secche ed affilatissime, sembrano suonate da Eraldo Bernocchi) e, soprattutto, lo stranito e barocco blues di “Her” in cui – tra singole note di piano e synth cold-wave – spadroneggia una maestosa slide guitar. Non si tratta di un caso isolato: la title track chiude sulla stessa tonalità meditativa, disegnando squarci dark ambient al ralenti (quasi una sinfonia deframmentata, à la Rapoon) contrappuntati da un piano che più carpenteriano non si potrebbe.

Per il momento, va detto, è ancora più la sorpresa della godibilità: i margini di crescita, anche nel passaggio da individualità a collettivo, sono tuttavia sconfinati. Vent’anni dopo la loro formazione, gli Ufomammut stanno per mutare pelle?

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