R Recensione

8/10

Gadget

The Funeral March

Da queste parti non tira un’aria particolarmente ottimista. C’è uno strano clima, teso, buio, come se qualcosa di terribile stia per accadere tra pochi istanti. Una musica impregnata di violenza e di pessimismo, che si riflettono anche nei testi ermetici delle canzoni.

È così che vi presento i Gadget, un quartetto svedese formatosi a Gävle nel 1997 che, grazie a due ottimi album quali “Remote” ed il qui recensito “The Funeral March” si sono imposti sulla scena diventando uno dei migliori esempi di grindcore moderno distaccandosi dai maestri Nasum, loro conterranei.

Dentro il sound di questo agguerrito combo c’è quanto di meglio la scena estrema attuale abbia da offrire: c’è l’impatto del death/grind più intransigente, la violenza d’esecuzione dell’hardcore più sparato e diretto, l’atmosfera nero pece del black metal e la marzialità dell’industrial. Il tutto contenuto in 17 tracce da 1-2 minuti di durata media, per un totale di neanche 30 minuti.

È chiaro quindi che in questo cd di fronzoli ne troverete davvero pochi, come s’intende dalle due tracce d’apertura “Choked” e “Feed On Lies”, dinamiche ed efficaci come i proiettili di un fucile a doppia canna, oppure “Requiem” e “H5N1”, che nel giro di 60-70 secondi riescono a compiere cambi di tempo e melodia (melodia?) inaspettati, rendendo i brani diretti ma non troppo semplici. E proprio quando meno l’ascoltatore se l’aspetta, il gruppo rallenta improvvisamente i ritmi, come accade in “Everyday Ritual”, brano dalle cadenze sludge, intrisa di un’atmosfera soffocante e inquietante che si dissolve nel rumore finale dei bombardamenti aerei, oppure nella conclusiva “Tingens Forbanneise”, dai toni desolanti e quanto mai pessimisti che chiude in bellezza uno dei più efferati e potenti album estremi degli ultimi anni.

Brani come “Illusions Of Peace” e “Let The Mayhem Begin” presentano riffs che non sfigurerebbero in un disco dei Mayhem o degli Immortal, riuscendo a toccare livelli di espressività non comuni nel grindcore; ma in generale tutto l’album, dalla prima all’ultima traccia, è un pugno nello stomaco, sia dal punto di vista strettamente musicale che da quello lirico, rappresentando una realtà dalla quale l’uomo non può sfuggire, una società che si autodistrugge, un buco nero che risucchia tutto ciò che gli capita a tiro, senza risparmiare nessuno.

Un album quindi vario, interessante, ben suonato che si lascia ascoltare con piacere anche dopo molto tempo, che indubbiamente farà felici i cultori del genere. Occhio però a non comprarlo a cuor leggero, i Gadget fanno sul serio. Temibili.

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