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R Recensione

10/10

Naked City

Radio

Naked City (letteralmente “città nuda”) è uno dei tanti soprannomi che gli americani attribuiscono a una delle loro metropoli più popolose ed importanti, New York. Questo perché il centro abitato è un vero e proprio crogiuolo di razze, culture, etnie, usi, costumi, tradizioni fra le più disparate, che vanno tanto dalla Chinatown, quanto dalla difficile sopravvivenza nei ghetti per le persone di colore, alla celeberrima “Little Italy”, rifugio per gli emigranti italiani ad inizio Novecento ed ora caposaldo dell’orgoglio italico in terra straniera. Un incontro, e spesso anche scontro, di centinaia di visioni diverse della vita.

Ed è nel 1988 che quel volpone di John Zorn, coniugando le sue due nature di musicista/compositore/genio tuttofare e nel contempo newyorchese del mondo (nato nel Queens, uno dei distretti della città, nel 1953), decide di mettere in musica la globalità della sua terra con il progetto, appunto, dei Naked City. Musicisti di prim’ordine e di primissima scelta quelli che accompagnano il nostro sassofonista in questa sua nuova avventura, fra le sue più apprezzate e sicuramente fra le più note anche al pubblico meno elitario: Fred Frith al basso, Bill Frisell alla chitarra, il dandy Wayne Horvitz alle tastiere, il grande Joey Baron alla batteria e, soprattutto, il nipponico, visionario Yamatsuka Eye, già leader dei Boredoms, incaricato di saturare lo spazio distorto dalle sezioni ritmiche e chitarristiche con i più disparati ed estremi vocalizzi, spesso ridotti ad un grumo di grugniti, sputi, urla, piagnucolii, zeugmi vocali. Partendo da una base free jazz, da sempre cavallo di battaglia di Zorn, i cinque esplorano una gamma di soluzioni ed archetipi sonori talmente vasta ed immaginifica da risultare quasi spiazzante, ad un primo impatto. Flussi musicali che spesso sono in aperta antitesi fra di loro, e che non per questo si dimostrano nocivi nel risultato finale. In particolare, grande attenzione viene posta alla violenta irruenza comunicativa del nascente grindcore che, incontrandosi e mescolandosi più e più volte con gli amalgami pseudo-jazzistici dei Naked City, va a creare un non-genere mai sentito prima e certamente innovativo, chiamato dalla critica “jazzcore”.

Radio”, terzo disco del combo, datato 1993, segue all’omonimo esordio del 1989 e a “Grand Guignol” del 1991. Se il primo lavoro era una discesa nella New York notturna, con atmosfere noir e retrogusti quasi seriali, fra macabro ed orrido, fra mistero e raccapriccio, fra vizi e virtù di un cuore che pulsa incessante, e il suo successore spalancava definitivamente le porte ad una frammentaria e rivoluzionaria concezione della forma/canzone – nonché ad un pieno sviluppo del jazzcore, mai così ferino e sanguigno –, “Radio” è il fulcro che bilancia i due elementi, arricchendone anzi la formula con nuove sfumature e rinnovate esecuzioni. Non più solo brevi schegge di intensità sonora, e nemmeno lunghissime suite avanguardistiche, poco malleabili per le orecchie meno allenate: il pacchetto comprende diciannove canzoni ben sviluppate ed autonome l’una dall’altra, dalla lunghezza media di tre minuti, per una durata totale che sfiora l’ora complessiva. Chi scrive in questo momento ritiene perciò che l’opera sia la più adatta per i neofiti del gruppo e, certamente, una delle loro migliori.

L’album è idealmente suddivisibile in due differenti parti. I primi nove pezzi sono all’insegna del più puro divertissement, con poche o nulle concessioni ai funambolismi metal, ed anzi sviluppati sopra registri rilassanti e disimpegnati, di facile ascolto ed assimilazione. Poi, pian piano che il cd avanza, i toni cominciano a sfaldarsi, a mutare, ad incattivirsi: si incupiscono, divengono più secchi e ferruginosi, crescono in intensità e potenza. Un vero e proprio climax graduale, concluso da un botto.

Già il terzetto in apertura fa venire il sangue alla testa, e ci mostra una band in grandissima forma, baciata dall’ispirazione e da un leader in vero e proprio odore di santificazione. Dapprima quindi “Asylum”, breve ed instabile free jazz dai numerosi e complessi cambi di tempo, poi “Sunset Surfer”, uno struggente surf-klezmer per chitarra e sax, con intrecci caldi e commoventi. Infine, l’apice: la geniale “Party Girl”, sgangherato rockabilly d’antan, fra Bo Diddley e tale Conway Twitty, stigmatizzato ripetutamente dalle barbariche incursioni strumentali di Zorn. Impossibile non sorridere quando, su una base talmente ben suonata e costruita da risultare ballabile, si innesta con furia omicida il sax a distorcere le trame ritmiche con non-tempo, non-scopo e non-senso. Non è così difficile immaginarli ghignare sotto i baffi, durante l’esecuzione del pezzo. Un continuo intrallazzo, questo, che inevitabilmente fa partecipe anche l’ascoltatore.

Qua e là nel disco si scorgono riferimenti talvolta ben pronunciati, altre volte più criptici, ma sempre ben legati ad una conoscenza teorica immensa e ben consolidata. Ad esempio, il chiaroscuro poliziottesco di “The Outsider”, intensa e misterica soundtrack che bene avrebbe figurato nel tributo di Zorn a Morricone (“The Big Gundown”, 1985), con tanto di conclusione dinamitarda nel pieno stile della band. Ma, come detto, in molti di questi segmenti i Naked City ampliano il proprio raggio di contaminazioni inserendo, all’interno del loro stile, altre etichette. Begli esempi sono “Terkmani Teepee”, che prende assieme surf, reggae e bossa centrifugandole sotto il cocente sole caraibico, o la new wave frammentaria di “Razorwire”, ben condotta dall’ascetica chitarra di Frisell, pioniere di uno zampillo compositivo allo stesso tempo estroso e godibile.

Il soffuso ambient pianistico di “The Bitter And The Sweet”, che sembra vagamente anticipare quello che sarà il monolitico impianto letterario di “Absinthe”, ultimo lavoro del complesso, traccia di fatto una vera e propria linea di demarcazione all’interno di “Radio”, da questo momento in poi meno propenso allo svago fine a sé stesso ed invece tutto intento a cercare di aprire nuove vie per la sperimentazione, possibilmente sia inusuali che non eccessivamente inintellegibili.

Krazy Kat” è la traccia che inaugura il nuovo corso, ed è un po’ quello che fu “Speedfreaks”, un paio di anni addietro, per “Grand Guignol”: un girotondo di brevi stacchi musicali l’uno diverso dall’altro, che passano con soluzione di continuità dall’operetta al cartoon, al jazzcore, al metal, al country, senza pause, quasi a voler esplicare lo sconfinato bagaglio di generi che i cinque conoscono e sanno suonare senza aver bisogno di fermarsi.

È in questi frangenti che si intravede maggiormente la completezza e la fondatezza del progetto intrapreso da John Zorn: i Naked City sviscerano dai loro strumenti una babele di suoni diversissimi fra loro, che sanno però combinare ed incastonare alla perfezione in una ricetta irresistibile, un po’ come New York sa incorporare al suo interno centinaia di razze diverse e diviene “nuda” proprio perché le espone insieme e le fa convivere alla luce del sole, o della notte.

Il perfetto klezmer che si inserisce nell’impalcatura blues-core di “Metaltov” è il vero e proprio pass che scioglie le giunture della follia del gruppo e ne scatena gli enzimi più estremi. A questo finale di banchetto conviviale non può non partecipare l’assente illustre dei primi minuti, quello scriteriato di Yamatsuka Eye che non avrebbe potuto trovare posto negli iniziali soffici ricami, ed ecco che subito in “Poisonhead”, delirio di fuzz e ritorni sonori, va a dettare legge con acuti e gorgogli che trafiggono la razionalità degli astanti. Ancora più interessante è “Pistol Whipping”, scaglia impazzita di nemmeno un minuto interamente dedicata ai giochi vocali di Eye, con un riff d’apertura rubato tanto ai Napalm Death quanto agli Extreme Noise Terror. Si manifesta infine in “Skatekey” la metamorfosi completa del gruppo, con doppia cassa e sax a braccetto in un’elegia della dissonanza.

American Psycho”, posta in chiusura, è infine una chiosa delle due metà di “Radio”: partiture che swingano, corrono su binari di celluloide, si tuffano nei territori del jazz e del blues, poi all’improvviso si bloccano… alcuni attimi di silenzio, due colpi di bacchette, e comincia a strepitare un terremoto sonoro, fatto da un muro di chitarre imponente, da un grande Baron dietro le pelli e dal solito Yamatsuka Eye che pare voler rimettere l’anima sul microfono. Spettacolari i lampi in cui il giapponese caricatura un improbabile Zach De La Rocha, o inscena un vero e proprio teatrino shakespeariano, piagnucolando sotto i gemiti del sax di Zorn e le atmosfere rarefatte delle tastiere. Cinema, musica, letteratura, pittura e scultura si fondono in sei minuti di ordinaria schizofrenia, dove il Caos è il nuovo ordine. Ornette Coleman, Carcass, Morricone, Slint, Santana e Dead Kennedys sminuzzati alla bell’e meglio. Un epitaffio che tutti, almeno una volta nella vita, vorremmo scrivere.

E così, parlando e discorrendo, ridendo e scherzando, lesto lesto John Zorn consacra all’altare della Storia della Musica il suo ennesimo capolavoro. Questa volta, però, condiviso con talenti all’altezza.

L’unico rammarico è che il compositore, animato da sempre dalla voglia di sperimentare sempre nuovo materiale e di collaborare con più artisti possibile, abbia deciso di rescindere il progetto in questione verso la fine del 1994, dando poi vita al filone Masada e alle collaborazioni con Mike Patton. I cinque si sono riuniti nel 2002, per una tappa di concerti raccolti sotto un dvd dalla reperibilità non impossibile: se vi capita sotto tiro, anche a costo di far follie, prendetelo. Capirete cos’è il genio.

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Impenitente (ha votato 6 questo disco) alle 11:22 del 24 luglio 2008 ha scritto:

nessun disco dei Naked City merita le cinque stelle, tanto meno Radio. Gli do una sufficienza solo perché oggi sono buono.