Sunn 0)))
White 1
Sul retro di copertina appare la scritta “maximum volume yields maximum results” accompagnata da un oscuro grafico algebrico che sembra celare in sé una qualche verità trascendentale o più semplicemente un indizio per comprendere l’intima cogitazione che è l’incipit dell’intera poetica Sunn 0))); forse solo una burla per recensori cocciuti e aspiranti crittografi.
Chiamare in causa l’ascoltatore, invitandolo a gonfiare al massimo il volume del proprio stereo, significa concepire la musica come uno strumento, un mezzo per abbattere e dilatare i limiti dell’individuo. Abbattimento di limiti che sono prima di tutto fisiologici, perché chi ha avuto la fortuna di assistere ad un loro concerto, ne sarà sicuramente uscito sconvolto per il volume esorbitante ed il peso delle basse frequenze che influisce sulla respirazione ed il battito cardiaco. Attraverso il mutamento fisiologico si richiede, di conseguenza, una sorta di adattamento dell’anima, cimento che può sconfinare nella perdita di se stessi. Per questo le esibizioni di O’Malley /Anderson hanno sempre l’apparenza di un rito; tuniche scure, gesti semplici ed estremamente enfatizzati, pareti di amplificatori eretti a simulacro (per chi non lo sapesse, Sunn 0))) è il corrispettivo nome di una marca di amplificatori).
Edificare imponenti costruzioni ed infinite lande artificiali attraverso i mezzi sopra elencati è ciò che identifica ‘White1’, disco molto più legato all’ambient rispetto al successivo ‘White 2’ (decisamente più drone), ma che rappresenta il vertice più alto (assieme al già citato fratellastro) della ricerca sonora dei Sunn 0))).
La paradigmatica ‘My Wall’, brano di apertura del disco, ne è l’esempio più lampante. La tematica del ‘muro’ è una delle strade più battute della storia del rock, ma a differenza di altre band che hanno invocato la sua immagine per auspicarne il crollo, i Sunn 0))) sostengono la sua costruzione; meglio ancora: ne promuovono la demolizione attraverso lo sviluppo infinito. Il muro innalzato dai Sunn 0))) è la torre di Babele del nuovo millennio.
Nei primi dieci minuti l’istrionico Julian Cope declama una solenne profezia; sullo sfondo i primi accordi scomposti tracciano le fondamenta del muro; già si presagisce la disfatta finale nelle atmosfere cupe che sembrano salire dal centro della terra; la prepotenza dei bassi non è ancora giunta al parossismo; le onde sonore ricordano il respiro di un drago prossimo al risveglio; in lontananza una chitarra arpeggiata disegna una terra vergine prossima allo smacco edilizio. Da qui in poi gli accordi si appesantiscono sempre più; la ruvidità dei suoni è un affronto. Lentamente si accalcano una sopra l’altra massicce costruzioni sonore ed atmosfere pietrificate; il muro è già ben oltre i cieli di dio, ma ancora non basta. Mentre si assiste a cotanta follia, la torre incomincia a sfaldarsi; le chitarre sono sempre più disordinate; le frequenze estreme, fagocitate dai sensi, perdono il loro carattere distruttivo, ma la sensazione è quella di essere bloccati in un rifugio, sepolto da continue valanghe e ad ogni sciagura ci si chiede come faremo ad uscirne (ecco la perdita di se stessi). Il nostro muro è abbattuto.
Il secondo brano, ‘The Gates Of Ballard’, risente sfacciatamente dell’influenza del padrino Joe Preston, che collaborerà interamente al disco. Come non pensare ai suoi beneamati Thrones riascoltando questo brano; un riff semplice ma intenso che trova la sua forza nella sfrontata reiterazione e nell’obesità dei suoni; il tutto sorretto da una linea di drum machine che spesso cede al libero arbitrio delle chitarre.
L’ultimo brano, ‘A Shaving Of The Horn That Speared You’, ci scaraventa in una terra di nessuno, in quella vita, per usare un’espressione di Derrida, dove l’uomo non è che un riflesso. L’intera composizione è fondata su un processo di affermazione del suono e di subitanea negazione; l’intensificarsi di un delicato feedback si annulla in un limpido accordo liberatorio, creando un ritmo lieve che è il tenue respiro del caso. Ma è tutto un’illusione: la tensione emotiva è forte e l’apparente pace che abbiamo provato è perdita dei sensi: la dolcezza che accompagna l’annegamento. Le chitarre riverberate amplificano questa sensazione d’abbandono e di acerbo oblio per poi ricongiungersi inevitabilmente a quel oscuro magma sonoro che ha la stessa consistenza del silenzio.
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