Earth
Angels Of Darkness, Demons Of Light 2
Dylan Carlson, a tal proposito, era stato molto chiaro: il nuovo corso della sua creatura principale ormai non più così nuovo, visto che dura indefinitamente da ormai cinque anni avrebbe avuto come obiettivo madre lapertura di nuove, evocative strade tramite il dispiegarsi di una complessa trilogia con archetipi demonologici come personaggi principali da citare nellinsieme statico dellaccadimento, ascetica filosofia drone non più ronzante e volutamente disarmonica ma, al contrario, aderente ad una nuova estetica di stampo desertico ed intenzioni estatiche, pacificate. Il primo capitolo e le sue inguaribili, stordenti fascinazioni canicolari (ampiamente introdotte, peraltro, dal precedente The Bees Made Honey In The Lions Skull) avevano fatto ben sperare nella solidità e nella longevità dellimpianto base, accuratamente rinforzato dallingresso minimale e nirvanico del violoncello di Lori Goldston. Come per una ideale trilogia hegeliana, tuttavia, la seconda antitetica tappa funge da scoglio e fa inceppare il meccanismo che, prima, appariva ben avviato.
Il quadro nomen omen, viste le pregevoli pitture del sempre curatissimo artwork è quanto mai complesso nella sua ostentata (od ostinata?) monotonia, perché non sembra semplicissimo, né tantomeno immediato, arrivare a comprendere le cause di unuscita così sottotono, gerarchicamente minore allintero di una discografia già parecchio nutrita. Apparentemente, infatti, nulla sembra deviare dal corso di uno stile che, col tempo, è diventato sempre più modo di essere: chitarre riverberate e paradisiache, ritmiche funeree, aperture zen, intense contemplazioni psichedeliche delaborato sviluppo. Dove, allora, il fondamento di una percezione qualitativa sui generis negativa? La risposta può giungere, forse, mettendo a confronto zenit e nadir di Angels Of Darkness, Demons Of Light 2: Sigil Of Brass contiene, in un formato vagamente assimilabile a quello della canzone, la purezza cristallina di un suono lucidissimo, levigato, levitante in un vuoto atmosferico (quasi) assoluto, dove solo gli archi vibrano tangenzialmente e gli arpeggi della chitarra scaricano a terra ogni fibra residua di tensione. Splendida è, daltro canto, la laboriosa diversificazione di sfumature su A Multiplicity Of Doors, tredici minuti in cui la melodrammatica fissità del violoncello viene lasciata libera di promanarsi, in ogni sua forma, attraverso le fessure dischiuse, con modalità ed accenti iterati di volta in volta circolarmente proprio come se si trattasse di intraprendere una serie di svolte sempre uguali e sempre differenti , dalle percussioni.
Fin qui le note positive. Le altre note, invece, quelle musicali senso strictu, a forza di venire cristallizzate, forzosamente, in unimmobilità fuori da ogni concetto temporale, vengono snaturate di ogni particolarismo, finendo per suonare tutte appiattite le une sulle altre e rendendo lascolto, se non difficoltoso, almeno prolisso, a tratti esasperante. Nessuna invenzione spezza landatura mortuaria di His Teeth Old Brightly Shine, nove minuti di desert rock suonato sotto effetto di potentissimi barbiturici. Le tonalità appena più scure di The Corascene Dog reggono leffetto sorpresa per qualche istante, prima di sbriciolarsi al suolo, vittime di una psichedelia mistica davvero troppo uguale a sé stessa. Manca la gigantesca suite finale, come nel capitolo antecedente, il cui ruolo viene ricoperto dai fantasmi inquieti del western narcolettico di The Rakehell, non privo di buoni spunti, ma stiracchiato allinverosimile e, a fine ascolto, poco credibile.
Cerchiamo solo di confidare, nellattesa dellappendice conclusiva, in un momento di fisiologico appannamento.
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