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R Recensione

6,5/10

Ufomammut

Oro: Opus Alter

Ci eravamo lasciati, la scorsa primavera, nell’incertezza di una domanda: e se…? E se davvero “Opus Alter” fosse riuscito a superare “Opus Primum”? Se davvero il disco definitivo degli Ufomammut dovesse prendere i connotati della tomba del doom, della sepoltura definitiva di riff, armonie, accordi, macerati in un unico, mefitico calderone di basse frequenze e pesanti minimalismi? I passaggi (d)evolutivi del trio di Tortona, negli ultimi anni, l’avrebbero fatto tranquillamente presagire. Di “Opus Alter”, a latere, si può tuttavia parlare non tanto come seconda tappa di un progetto, “Oro”, che ha visto approdare i piemontesi alla distribuzione internazionale sulla Neurot di Steve Von Till, quanto di un disco “altro” (ci perdonerete la brutta parafrasi in calembour) pienamente autosufficiente, un capitolo svincolato da ciò che è venuto prima, se non fosse per le reprise di “Opus Primum” che fanno ancora capolino, qua e là, in alcuni passaggi del successore. Gli Ufomammut abbracciano nuovamente una maggiore musicalità – troppo arduo scarnificare ulteriormente la sostanza scheletrica della prima parte? –, sacrificando però nel contempo l’idea che stava dietro all’impresa: fare tutto con meno possibile. Un bel passo in avanti per tre passettini di coerenza indietro.

L’orecchio, sia ben chiaro, ringrazia. “Opus Primum” era un disco coraggioso (se la prudenza dei tempi moderni non s’imponesse su tutto, l’avremmo chiamato “pionieristico”), ma a tratti troppo statico nello svellere ossessivamente piccole cellule disarmoniche da blocchi marmorei ostinatamente, perpetuamente immobili. Se non sapessimo come il doom viene rimodellato, da tempo immemore, dagli Ufomammut, l’avremmo chiamato stereotipato. “Opus Alter” riparte, invece, da “Oroborus”, il brano che davvero non ti aspetti, micidiale mazzata stoner con allucinogeno riff terzinato su soluzioni profondamente settantiane, una pasta hard rock di base devastata da bassi distorti ed alterati all’inverosimile, combusta da siluri space ed iterata in un massacro di vocoder e volumi panpottati in abissi tremebondi: la solidità di “Stigma” che fa a cazzotti coi Pentagram ed esplode in un finale sulfureo, lacerato da un assolo che è cacofonia noise. Lecito aspettarsi qualcosa di diverso, qualcosa di più. Il tema catramoso di “Infearnatural” riecheggia in “Luxon” con la rigidità e la sacralità di una liturgia laica, crescendo di componentistica e intensità – dalle secchissime, monocrome pennate iniziali al monolite melvinsiano che prende corpo negli ultimi passaggi – sino a scomporsi in un deliquio di roccia e fuoco. Il gran colpo si materializza quando “Sulphurdew”, doom suonato con il groove e la potenza di un approccio metallico, vola su velocità inedite e imponenze soniche di tutto rispetto, la marzialità della sezione ritmica si squarcia in più punti e fa intravedere, all’interno della sei corde, un’anima paesaggistica quasi black, di sicuro post metal (vi è la belligeranza da landscape dei Cobalt), che non tarda ad impantanarsi, a rallentare e a sbandare vistosamente, fino ad ansimare in una nuvola di effetti e finire triturata dal potentissimo giro d’apertura di “Aureum”.

Poco più di venticinque minuti, insomma, ed ogni buona premessa è andata all’inferno (ma per davvero). La costruzione dinamica dei brani non lascia un attimo di tregua ed ogni sezione si incasella dentro l’altra con una naturalezza ben lontana dal calcolo pauperistico di “Opus Primum”. Ciò che non manca di lasciare a bocca aperta, e forse unico tratto eccezionalmente distintivo di “Oro”, è il suo spingere – in maniera del tutto parossistica – sul pedale dei volumi, che arrivano ad altezze ed oscillazioni persino maggiori di quelle del già assordante predecessore. Delle casse appena decenti, od un paio di cuffie da professionista, e l’apparato uditivo, assieme alle mura della vostra stanza, è pronto per andare in pezzi. Quando il basso di “Sublime” – impasto dei main theme di “Empireum” e “Magickon”, riassemblati in un mortifero shake delle improvvise aperture “melodiche” – inizia a friggere sul gorgoglio dei pedali e dei delays, è il temibile segnale di una fragorosa battaglia che scoppia a comando e disintegra in una stringa di psichedelia kosmiche, a sua volta travolta dall’impeto belluino di “Deityrant”, cannonata sludge di fisicità e quadratura impressionanti.

Come valutare “Opus Alter”? Mezzo voto in più per la straordinaria organicità dell’insieme, o mezzo in meno per aver, volente o nolente, tradito quello che pareva lo scopo originario di “Oro”, di essere doom in itself, senza nemmeno il conforto della concretezza materica? Mezzo toglie mezzo, ed la valutazione, magickon!, rimane ancora una volta la stessa. L'uno mirabile conatus, l'altro grande conferma. Non c’è che dire: missione compiuta!

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Voltaire alle 12:27 del 23 agosto 2012 ha scritto:

Sto seriamente soffrendo Marco. Il disco è stato spedito 3 settimane fa. Non è ancora arrivato!!!! In tutto ciò voglio evitare ascolto di preview oppure video su youtube. Sto morendo lo voglio sentireeeeee... L'unica cosa che mi rincuora è la tua recensione e quel 6,5. Magari è una attesa morbosa non giustificata. Devo bere qualche cosa a dopo....