Ufomammut
Oro: Opus Alter
Ci eravamo lasciati, la scorsa primavera, nellincertezza di una domanda: e se ? E se davvero Opus Alter fosse riuscito a superare Opus Primum? Se davvero il disco definitivo degli Ufomammut dovesse prendere i connotati della tomba del doom, della sepoltura definitiva di riff, armonie, accordi, macerati in un unico, mefitico calderone di basse frequenze e pesanti minimalismi? I passaggi (d)evolutivi del trio di Tortona, negli ultimi anni, lavrebbero fatto tranquillamente presagire. Di Opus Alter, a latere, si può tuttavia parlare non tanto come seconda tappa di un progetto, Oro, che ha visto approdare i piemontesi alla distribuzione internazionale sulla Neurot di Steve Von Till, quanto di un disco altro (ci perdonerete la brutta parafrasi in calembour) pienamente autosufficiente, un capitolo svincolato da ciò che è venuto prima, se non fosse per le reprise di Opus Primum che fanno ancora capolino, qua e là, in alcuni passaggi del successore. Gli Ufomammut abbracciano nuovamente una maggiore musicalità troppo arduo scarnificare ulteriormente la sostanza scheletrica della prima parte? , sacrificando però nel contempo lidea che stava dietro allimpresa: fare tutto con meno possibile. Un bel passo in avanti per tre passettini di coerenza indietro.
Lorecchio, sia ben chiaro, ringrazia. Opus Primum era un disco coraggioso (se la prudenza dei tempi moderni non simponesse su tutto, lavremmo chiamato pionieristico), ma a tratti troppo statico nello svellere ossessivamente piccole cellule disarmoniche da blocchi marmorei ostinatamente, perpetuamente immobili. Se non sapessimo come il doom viene rimodellato, da tempo immemore, dagli Ufomammut, lavremmo chiamato stereotipato. Opus Alter riparte, invece, da Oroborus, il brano che davvero non ti aspetti, micidiale mazzata stoner con allucinogeno riff terzinato su soluzioni profondamente settantiane, una pasta hard rock di base devastata da bassi distorti ed alterati allinverosimile, combusta da siluri space ed iterata in un massacro di vocoder e volumi panpottati in abissi tremebondi: la solidità di Stigma che fa a cazzotti coi Pentagram ed esplode in un finale sulfureo, lacerato da un assolo che è cacofonia noise. Lecito aspettarsi qualcosa di diverso, qualcosa di più. Il tema catramoso di Infearnatural riecheggia in Luxon con la rigidità e la sacralità di una liturgia laica, crescendo di componentistica e intensità dalle secchissime, monocrome pennate iniziali al monolite melvinsiano che prende corpo negli ultimi passaggi sino a scomporsi in un deliquio di roccia e fuoco. Il gran colpo si materializza quando Sulphurdew, doom suonato con il groove e la potenza di un approccio metallico, vola su velocità inedite e imponenze soniche di tutto rispetto, la marzialità della sezione ritmica si squarcia in più punti e fa intravedere, allinterno della sei corde, unanima paesaggistica quasi black, di sicuro post metal (vi è la belligeranza da landscape dei Cobalt), che non tarda ad impantanarsi, a rallentare e a sbandare vistosamente, fino ad ansimare in una nuvola di effetti e finire triturata dal potentissimo giro dapertura di Aureum.
Poco più di venticinque minuti, insomma, ed ogni buona premessa è andata allinferno (ma per davvero). La costruzione dinamica dei brani non lascia un attimo di tregua ed ogni sezione si incasella dentro laltra con una naturalezza ben lontana dal calcolo pauperistico di Opus Primum. Ciò che non manca di lasciare a bocca aperta, e forse unico tratto eccezionalmente distintivo di Oro, è il suo spingere in maniera del tutto parossistica sul pedale dei volumi, che arrivano ad altezze ed oscillazioni persino maggiori di quelle del già assordante predecessore. Delle casse appena decenti, od un paio di cuffie da professionista, e lapparato uditivo, assieme alle mura della vostra stanza, è pronto per andare in pezzi. Quando il basso di Sublime impasto dei main theme di Empireum e Magickon, riassemblati in un mortifero shake delle improvvise aperture melodiche inizia a friggere sul gorgoglio dei pedali e dei delays, è il temibile segnale di una fragorosa battaglia che scoppia a comando e disintegra in una stringa di psichedelia kosmiche, a sua volta travolta dallimpeto belluino di Deityrant, cannonata sludge di fisicità e quadratura impressionanti.
Come valutare Opus Alter? Mezzo voto in più per la straordinaria organicità dellinsieme, o mezzo in meno per aver, volente o nolente, tradito quello che pareva lo scopo originario di Oro, di essere doom in itself, senza nemmeno il conforto della concretezza materica? Mezzo toglie mezzo, ed la valutazione, magickon!, rimane ancora una volta la stessa. L'uno mirabile conatus, l'altro grande conferma. Non cè che dire: missione compiuta!
Tweet