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R Recensione

4,5/10

Electric Wizard

Wizard Bloody Wizard

Se la sineddoche è l’unità di misura fondante della qualità – cosa che permette ai più infimi pennivendoli di preconizzare le rovine del tutto Italia osservando lo sfacelo della sua parte più rappresentativa, il sistema calcio –, l’ascolto del nuovo disco degli Electric Wizard apre una lunga serie di dubbi legittimi ed insieme inquietanti sull’effettivo stato di salute del doom. Parabola piuttosto ingloriosa, a ben pensarci, quella dei quattro alchimisti del Dorset. Nel quinquennio 1997-2002, anche grazie a produzioni di tutto rispetto quali “Come My Fanatics…” e “Dopethrone” (“We Live”, del 2004, è un caso particolare e dibattuto), la deforme creatura di Jus Oborn era il nome più rispettato e rappresentativo dell’intera scena, un giovane-non più giovane act in grado di imporre la sua assoluta autorità e influenzare le generazioni successive (si pensi ai primi vagiti dei nostri Ufomammut). Dopo l’ultimo, isolato picco di “Witchcult Today” (2007) seguì la poco convinta svolta stoner-garage di “Black Masses” (2010) e il brusco ritorno sui propri passi con un “Time To Die” (2014) artificioso e fallimentare. Oggi, messo a paragone con “Wizard Bloody Wizard”, persino quel posticcio back to basics assume i connotati del capolavoro.

Sull’oggetto specifico di discussione c’è così poco da dire – e quel poco è così irrilevante – che forte prorompe la tentazione di tacere e di passare ad altro, se non fosse che la risonanza degli Wizard è ancora troppo ampia da poter essere platealmente ignorata. Ed allora: il loro nono lavoro lungo è così pedestre e dozzinale da suscitare, paradossalmente, una sorta di simpatia al rovescio, il sincero imbarazzo interiore rivolto agli amatori del mestiere. È parecchio difficile, d’altro canto, scrivere un disco doom senza avere un singolo riff decente: e difatti “Wizard Bloody Wizard” non possiede né la “d” di “decente” né quella di “doom”. La pasta sonora torna, per certi versi, agli alleggerimenti strategici di “Black Masses”, cercando tuttavia di conservare – nelle modalità di esecuzione e registrazione – la patina occulto-vintage tacito patrimonio comune del genere: la band, dal canto suo, pur continuando a marciare compatta, fa registrare uno storico negativo in quanto a dinamiche dell’interplay e inventiva delle sezioni strumentali.

Dei sei brani in scaletta, l’unico che regge dall’inizio alla fine – non fosse altro per la bizzarra idea di riscrivere, in chiave Nuggetsploitation, la frase portante di “Lucifer Sam” dei Pink Floyd – è “Necromaniac”. Quanto segue è l’elogio dello stereotipo e della faciloneria a buon mercato, tra i Sabbath prima maniera dell’interminabile “Hear The Sirens Scream...” (male anche le aperture hard rock), i truci Saint Vitus di “Wicked Caresses”, le pentatoniche col pilota automatico dello scadente singolo “See You In Hell” (cinque minuti di jam in sala prove e chiunque di voi può mettere assieme un pezzo così), la lisa allure heavy-psych-gothic di “The Reaper” e la primitiva narcolessia di “Mourning Of The Magicians”.

Ve lo ricordate il generatore automatico di frammenti vascobrondiani? “Wizard Bloody Wizard” vive della medesima aleatorietà. Ecco, d’accordo che nel doom quel che conta è il suono, la vibrazione, l’estetica, ma un disco del genere continua ad essere troppo facile persino per questi standard. Doom for… doommies.

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