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R Recensione

7/10

Ufomammut

8

Ricorrendo ad un’abusata perifrasi, tutti i dischi degli Ufomammut sono circolari, ma alcuni sono più circolari di altri. Così, se l’efficacissimo lavoro di sintesi del precedente “Ecate” si serviva del medium-composizione in un modo che non si sentiva almeno dal monstre “Idolum” e i due capitoli di “Oro” (“Opus Primum” e “Opus Alter”) costituivano l’erculeo tentativo dei tre tortonesi di costruire un universo osmotico ed autosufficiente, il robusto filo rosso che lega e tiene uniti i movimenti di “8” (il numero dell’infinito, della giustizia trascendentale, della resurrezione: quando la semiotica di un titolo sottende interi universi) va a comporre una costruzione torreggiante che richiama l’alveare-suite di “Eve”: un unico, maestoso brano di tre quarti d’ora, frazionato per comodità in segmenti che scivolano con naturalezza l’uno nell’altro.

Qui, tuttavia, finiscono i punti di contatto, perché il solenne sludge atmosferico di “Eve” ha ben poco da spartire con il magma corrusco e ribollente che alimenta i circuiti nervosi di “8” (con buona pace di chi, nel doom, confonde ancora prevedibilità con identità logica). Pur essendo stati sempre lontanissimi da una concezione formale progressive, ad esempio, le migliorie tecniche che Urlo, Vita e Poia hanno apportato al loro monolitico interplay diventano vieppiù evidenti con il passare degli anni: ora, pur essendo ancora largamente predominante, l’impatto di pancia non preclude alcune importanti variazioni ritmiche (le zoppie di “Babel”, la scansione rientrante del riff di “Fatum”, l’Apocalisse in 7/8 di una “Prismaze” altezza “Oroborus”, il nervoso tip tap dell’attacco di “Psyrcle” sono le più eclatanti) e si concede frequenti ribaltamenti di prospettiva ed atmosfera (le selvagge scariche hard’n’heavy della seconda metà di “Warsheep”, ancora “Psyrcle”, su cui varrà spendere qualche parola in più nel prosieguo).

Questo elaborato sistematizzarsi del suono, in verità, non mitiga né tantomeno spegne gli ardori che covano in ogni brano: se possibile, anzi, li accentua e li esalta. Il risultato paradossale è che “8”, oltre ad essere il disco più articolato degli Ufomammut, è, per certi versi, anche il loro più crudo e violento. Prima di coagularsi in un devastante mantra space metal sabbathiano, fiotti di puro acido free form prorompono da “Babel”. “Zodiac” si offusca in una decelerazione interstellare che si trascina con sé una selva di effettistica. La transizione dallo sludge di “Fatum” alle rifrazioni heavy psych di “Prismaze” si consuma in un bagno di sangue. “Core” viene squassata da ripartenze al cardiopalma. “Wombdemonium”, infine, viene inchiodata al muro da una sezione chitarristica di cemento, una sventagliata di riff tra le più mortifere di tutto il repertorio della band. La mattanza continua indisturbata, fino all’apogeo di “Psyrcle”: un halay doom, attorcigliato attorno alle volute orientaleggianti di synth di Urlo e Poia, che si disintegra in una folle accelerazione noise (amplificatori settati a volumi supersonici, lancette color rosso fuoco).

Da ormai vent’anni funziona così: ogni nuovo disco degli Ufomammut riesce nell’impresa, con minimi e mirati aggiustamenti, di suonare come nessun’altra cosa della loro produzione. “8”, nemmeno a dirlo, è una dimostrazione di potenza ed efficacia con pochi pari in Italia.

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