Agoraphobic Nosebleed
Arc [EP]
Puntualità e logorrea, queste sconosciute. Qui ed ora, la vera notizia non è limprovviso risveglio degli Agoraphobic Nosebleed, a sette anni dalla mattanza spietata di Agorapocalypse (che, a sua volta, seguiva di sei anni Altered States Of America: non inseriamo nel conteggio lincontrollato proliferare di formati minori), né che i figlioli prodighi, per loccasione, portino in dono uno smilzo dischetto di soli ventisette minuti. Chi già conosce, sulla carta, già sa. Problema cogente ed assolutamente inedito nella letteratura, semmai, è come questo minutaggio venga distribuito: in barba al senso logico, si veleggia da un estremo allaltro, dalle schizoidi proporzioni del sopraccitato Altered (99:21, da leggersi come tracce:minuti) a questo Arc (3:27). È unincredibile bolla spazio temporale quella che dilata a dismisura i pori di composizioni che, fino allaltro giorno, erano subitanei tagli sulla tela, folli assalti allarma bianca: come togliere di mezzo (quasi) del tutto lelettronica, riscrivere da capo le coordinate cybergrind, distillare con pazienza tutti i rimandi e le strizzatine docchio al doom e allo sludge disseminate per la pittoresca discografia del gruppo (a tal proposito, consigliamo di, ahem, riascoltare lestenuante doppia compilation Bestial Machinery del 2007 ) e condensarne allinverosimile la densità.
Pezzi lunghi, allora, lunghissimi, e come tali stilisticamente canonici, assai debolmente dinamici: non si possono pretendere gestioni magistrali da chi, fino allaltro giorno, si impegnava a non sforare il tetto dei trenta secondi Not A Daughter inanella, sardonicamente, un esercito di riff ciclopici, più sudisti del sud (Harvey Milk? Down? Entrambi!), senza pensare nemmeno per un istante a qualcosa che possa assomigliare vagamente ad un effetto sorpresa: dal canto suo, Katherine Katz strepita con la disperazione nichilistica della ragazzina psicotica, già frontwoman dei Salome, consumatasi sopra i vinili degli EyeHateGod (non sorprende apprendere che i testi siano improntati alla sua recente, dolorosa esperienza dellincontro con la morte, giudice supremo ed implacabile dei destini della madre). La prima metà abbondante di Deathbed è un torrente di fango a bpm minimi, che acquista velocità e profondità solo dai cinque minuti in avanti (una sezione monocolore invero tarata su uno stoner-doom di assoluta maniera). Gnaw, infine, è uno straziante monologo sludge che ricopre di Electric Wizard listeria cacofonica di moderni eroi powerviolence, come i dissennati Burmese. Risultato? Unepopea di sublime inascoltabilità, come da buon marchio di fabbrica.
Valeva la pena tirare così a lungo la corda per dimostrare di esserne capaci? Forse no. La prova di forza, tuttavia, è reale: non solo il germoglio della follia non è stato abortito, ma ha anzi attecchito con nuove radici. Primo di quattro extended plays, ciascuno dedicato a (e gestito da) un membro diverso del gruppo: si tenti un paragone coi Melvins, ben prima che coi Kiss
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